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Chiara Inesia


venerdì 29 maggio 2009

CHIARA - Alessandro Mara

Oggi il cielo ha su lo spolverino
Non so se perché è triste o per starmi più vicino
Chiara luna di notte
Chiara sole al mattino
Certe nuvole d'oro le fanno da coro
Fiore di campo in cima ad un vulcano
Chiara sta sola e rimane un mistero
Chiunque vorrebbe tenerla per mano
Perché quando ama, lei ama davvero

Chiara che si nota tra la folla
Chiara che ha imparato a stare a galla
Chiara dal sorriso dolce e provocante
Chiara che non può non essere importante
Chiara spaesata in mezzo alla gente
È un dono o un difetto essere trasparente?
Essere trasparente

Frizzante e vivace con riservatezza
Trascina il suo senso di inadeguatezza
Chiara se si impegna si impegna fino in fondo
Chiara che col cuore abbraccia tutto il mondo
Come posso amarti col mio niente da offrirti
Eppure vorrei, solo per una volta
Vivere la tua pelle di seta di stelle
E nel mistero dei tuoi occhi calarmi fino in fondo

Chiara che si nota tra la folla
Chiara che ha imparato a stare a galla
Chiara dal sorriso dolce e provocante
Chiara che non può non essere importante
Chiara spaesata in mezzo alla gente
È un dono o un difetto essere trasparente?

Chiara che si nota tra la folla
Chiara che ha imparato a stare a galla
Chiara dal sorriso dolce e provocante
Chiara che non può non essere importante
Chiara spaesata in mezzo alla gente
È un dono o un difetto essere trasparente?
Essere trasparente


LE TRE ANIME DEL BRASILE


di Pierluigi Lattuada e Walter Gioia

Il Brasile guarda con mille occhi. Sono gli occhi di madri che partoriscono per la strada, di bimbi affidati alla porta del pronto soccorso delle metropoli, dei vecchi sdentati senza età, dei rampolli ricchi e meno ricchi nelle sale da ballo, delle piccole indie con arco e frecce nelle favelas di periferia. Occhi giovani e antichi, profondi e umidi, nerissimi e colorati. E quando ti guardano, ti inviano il loro messaggio: il significato di quello che fai sta esattamente in quello che fai.
La gente sembra sapere da sempre che è così. Trasforma in danza la sua tristezza e beve un liquore forte e limpido che chiama cachaça, Per terra, sui marciapiedi di Rio e di Bahia, disegna stelle col sale e accende candele. Ai mercati generali, insieme a frutta e tabacco, compra statue colorate rappresentanti i santi e i diavoli che utilizza nei terreiros, i luoghi sacri per i riti dell’Umbanda e del Candomblé. Nei terreiros la gente va a curarsi. Assiste alle celebrazioni dove i sacerdoti-medium in vesti bianche cantano, danzano e bruciano incensi per propiziare la venuta di alcuni dei tanti spiriti che simboleggiano i vari aspetti del divino e con esse si transidentificano e operano rituali.
Anche così, attraverso il simbolo, la cultura brasiliana resta viva, tramandando ciò che di più vitale ha saputo produrre. La pregnanza cosmica del significato simbolico costruisce una sintesi e stabilisce una continuità che arriva direttamente all’ancestro e con esso intreccia un legami fuori dallo spazio-tempo, un cordone infrangibile di amore il cui “dove” naturale è il tutto.
Il biologico, l’istintivo e l’immaginario respirano profondamente nel petto di ogni brasiliano, ed è a tale livello che le persone comunicano, si riconoscono e si amano. È l’energia dell’umano a svelare il mistero della comunicazione. Attraverso il rito la parte ritorna al tutto. L’uomo biologico rivendica la sua natura più profonda; ancorato alle sue origini recupera l’uomo sociale dentro di sé, spazzando via l’ingorgo culturale e aprendo la strada all’uomo universale. In essenza, la cultura brasiliana è la cultura del transe, frutto della mescolanza delle sue tre anime: la bianca, la india e la nera.
L’anima bianca del portoghese cattolico che comandava, decideva e professava il suo culto alla luce del sole. L’anima colta e padrona che ha partorito, insieme ai mostri del potere politico-economico, una miriade di comunità spirituali sparse per tutto il Brasile e persone deliziose capaci di realizzare una sintesi del patrimonio del suo popolo e di lasciare una voce al cuore del Brasile.
L’anima nera dello schiavo portato in catene, domato con il ferro, che divenne, con la sua robustezza e le sue fatiche immani, il pilastro della produzione minerario-agricola che condusse il Brasile all’età adulta. L’anima Afro, grondante sudore e sangue, sopravvissuta alla saggezza della accettazione, anche grazie ad un filo di amore connesso all’universale e intessuto dagli Orixás, divinità portate da oltre oceano, archetipi, forze elementari e spirituali ad un tempo.
L’anima rossa dell’indio, fiero e indomabile, che collaborando o più spesso ribellandosi al bianco oppressore, continuò a popolare il territorio di un amalgama etnoculturale estremamente ricco e vario. L’anima india, forte e guerriera, sacra nel quotidiano, indivisa e selvaggia nel suo rapporto con la natura, senza tempo, dagli occhi puliti e insondabili, dal cuore istintivo e vergine.
Così gli Orixás fraternizzarono con la tradizione sciamanica india, il suo culto sacro per la natura, le danze estatiche e propiziatorie, si mascherarono, per sopravvivere, nelle vesti e sembianze di ignari e compiacenti santi cattolici. I culti afro-brasiliani, nelle loro varie sfaccettature, in questo modo si sparsero per tutto il litorale, si addensarono nei nuclei urbani, forgiarono comunità sparse nelle vaste praterie e nelle intricate selve amazzoniche e del Mato Grosso.
Lo sciamano indio, con il suo esempio, insegna allo scienziato occidentale l’unità, il rispetto imprescindibile e assoluto per l’ecosistema in cui vive. Egli sa di essere parte di tutto ciò che lo circonda, sa che se il rispetto per l’ecosistema passa per il rispetto di sé e che se non rispetta se stesso non può produrre nulla di rispettabile. Lo sa e lo vive.
I sacerdoti degli Orixás insegnano al medico occidentale a parlare col cuore, a porre la scienza al servizio dell’amore. La cultura brasiliana del transe (da non confondersi con la trance) è dunque un’inestricabile miscuglio delle tre anime che l’hanno prodotta. Essa, nelle sue varie forme che pongono l’accento ora sull’una ora sull’altra anima, nutre l’uomo universale dentro di noi, recupera l’energia dell’umano riappropriandosi dei simboli archetipici in quanto catalizzatori di energia. Essa ci conduce a riconoscere e a gestire la nostra ipersensibilità, ci insegna l’atteggiamento meditativo e l’umiltà della saggezza. Quell’umiltà dell’anima che rischiamo di perdere tra i prodigiosi balocchi della nostra tecnologia avanzata.


(Riza Scienze, n° 110, Marzo 1997)