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Chiara Inesia


venerdì 4 aprile 2008

Da "I FUOCHI BLU" di James Hillman

Dunque il problema del male, come quello del brutto, rimanda in primo luogo al cuore anestetizzato, al cuore che non reagisce a quello che ha davanti e che trasforma con ciò stesso il variegato volto sensuoso del mondo in monotonia, in uniformità, in unità. Il deserto della modernità.

Eppure, sorprendentemente, quel deserto non è senza cuore, perché il deserto è dove vive il leone. Deserto e leone sono tradizionalmente associati nella medesima immagine, sicché, se vogliamo ritrovare il cuore reattivo, dobbiamo andare là dove più sembrerebbe assente.

Secondo il Physiologus (tradizionale compendio di psicologia animale), alla nascita i cuccioli del leone sono inanimati e vanno destati alla vita con un ruggito; ecco perché il ruggito del leone è così possente: per risvegliare i leoncini dal loro sonno, dal sonno in cui sono immersi dentro il nostro cuore.
Dunque, il pensiero del cuore non è semplicemente dato, non è una innata risposta spontanea, sempre pronta, sempre presente. No, il cuore va pro-vocato, fatto uscire, che è appunto l’etimologia che Marsilio Ficino dà della bellezza: kallos, dice, viene da kaleo, "pro-vocare". "Il bello genera il bene".

La bellezza deve essere provocata alla vita con il furore, l’oltraggio, perché i cuccioli del leone nascono inanimati, come la nostra pigra acquiescenza politica, il nostro carnivoro stordimento davanti al televisore: la paralisi per la quale il pharmakon di Paracelso era l’oro, il metallo del leone.
Ciò che nel cuore è passivo, immobile, addormentato crea un deserto, e il deserto può essere curato soltanto dal suo stesso principio parentale, che esprime con un ruggito le sue cure che ridestano alla vita. "Ruggisce il leone al deserto infuriante" ha scritto Wallace Stevens. "Cuore, istinto, principio": Pascal...

Più grande è il nostro deserto, più grande deve essere il nostro furore, e quel furore è amore.

Le passioni dell’anima rendono abitabile il deserto. Non abitiamo una grotta di rupi, bensì il cuore che è dentro il leone. Il deserto non è in Africa; è dovunque, quando si è disertato il cuore. I santi non sono morti; essi vivono nelle passioni leonine dell’anima, nelle immagini che ci tentano, nelle fantasie sulfuree e nei miraggi: la via dell’amore.
Il nostro percorso attraverso il deserto della vita, o qualunque suo momento, è il risveglio alla vita come deserto, il risveglio della belva, sentinella del desiderio, la sua zampa famelica, infocata e insonne come il sole, esplosiva come lo zolfo, che incendia l’anima.
Il simile cura il simile: la belva del deserto è il nostro custode nel deserto della burocrazia moderna, della bruttezza urbana, delle banalità accademiche, dell’aridità professionale e ufficiale: nel deserto della nostra ignobile condizione...

Quel furore ci fa paura; non osiamo ruggire. Con Auschwitz alle spalle e l’atomica all’orizzonte, lasciamo dormire i piccoli leoni davanti al televisore, il cuore, imbottito del suo stesso zolfo coagulato, ormai diventato una belva nella tana che prepara il suo attacco, l’infarto.

In psicologia, addomestichiamo il nostro furore con eufemismi negativi: aggressività, ostilità, complesso del potere, terrorismo, ambizione, il problema della violenza. La psicologia psicoanalizza il leone. Forse sbagliava Konrad Lorenz, e sbagliano gli psicologi, a cercare un modo di aggirare l’aggressività. È "aggressività" o non è invece il leone che ruggisce al deserto infuriante? Non avrà, la psicologia, perduto lo zolfo nativo, trascurato Marte che cavalca il leone, Marte, l’amato di Venere-Afrodite?

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