di Bel Cesar, traduzione di Isabela Bisconcini
Ogni volta che diventiamo più trasparenti alla nostra propria luce,
restauriamo la luce del mondo.
Rachel Naomi Remen
Il maestro buddista Chogyam Trungpa diceva che lo scopo della vita consiste semplicemente nell’andare avanti e fare della vita una sorta di “risveglio” invece di rimanere “addormentati”. La capacità di continuare ci aiuta a percepire che nessun problema è senza uscita. Andare avanti significa non lasciarsi prendere dall’inerzia, dalla paura o dall’irritazione.
Il miglior modo di liberarsi dal passato è fare la pace con noi stessi al momento presente. Fare la pace con qualsiasi ricordo o sentimento che possa sorgere. In modo che, piano piano, non saremo più “catturati” da questi ricordi.
Facciamo in modo che le antiche immagini di noi stessi vadano via. Continuiamo, semplicemente, a muoverci in avanti. Niente più ci fa fermare. Sappiamo come continuare positivamente, visto che siamo connessi con la nostra fiducia di base, con la nostra bontà fondamentale.
Il coraggio è l’abilità di muovesi verso il futuro, senza guardare indietro: staccarsi dal passato. Mi ricordo di un fatto accaduto a Lama Segyu Rimpoche. Lui mi ha raccontato che dopo anni che era andato a vivere negli Stati Uniti, ha trovato a casa della mamma una scatola ancora chiusa, che era rimasta nel trasloco. Non ha avuto dubbi: ha bruciato la scatola senza aprirla. “Così, non avrebbe svegliato la mente dell’attaccamento”, mi ha detto lui. Dopo aver trascorso tanti anni senza avere il bisogno delle cose che c’erano dentro la scatola, non c’era la necessità di aprirla per sapere che il suo contenuto era un “carico extra”. Questo fatto tante volte mi frena a non rovistare nelle storie passate che hanno già esaurito il loro contenuto. Ci sono dei momenti in cui bisogna saper contenere la propria curiosità e bruciare le nostre “scatole”, prima che non siamo più in grado di controllare l’impulso di aprirle.
Ci sono, però, dei momenti in cui andare in soffitta a rovistare nelle “scatole” del passato può essere molto terapeutico. Da quando ho cominciato a scrivere questo libro, ho ripreso l’abitudine di rileggere i miei quaderni d’appunti. Ho sempre avuto l’abitudine di scrivere i miei sogni, sessioni di terapia e frasi principali che ho sentito dai Lama. Adesso, quando leggo delle cose scritte più di dieci fa, percepisco come sono ancora attaccata a certi modelli e come sono riuscita a liberarmi di altri. Qualche sogno era premonitore. Certi insegnamenti, oggi, hanno più impatto su di me, di allora, quando li ho scritti.
Come dice John Welwood: “Visto che l’auto-immagine ha come supporto delle vecchie storie - credenze che noi stessi ci raccontiamo su come è la realtà - fare luce su di esse è un passo essenziale per abbandonare la soggezione ad un’identità”.
Ci vediamo nelle terre pure
Da quando mio figlio, Lama Michel Rinpoche, a 12 anni è diventato monaco ed é andato a vivere al monastero di Sera Me, nel sud dell’India, ho dovuto imparare a dire addio, cioè, a non guardare indietro. Per qualche anno di seguito, ci ritrovavamo soltanto una volta all’anno per due settimane. Avevamo il seguente accordo: all’aeroporto, dopo l’ultimo abbraccio, ognuno doveva andare avanti, senza guardare indietro.
Una volta sono arrivata a programmarmi internamente per vivere queste due settimane di forma “molto consapevole”. Eravamo a Kathmandu, in Nepal. Nella prima settimana ero abbastanza sciolta, senza pensare alla partenza. Poi, nella seconda, mi sono allenata ogni giorno per imparare a separarmi fisicamente da coloro che amo, ispirata nella realtà di dover sapere dire addio alle persone care, quando anche io dovrò morire!
Allora, ogni giorno sceglievo di staccarmi da mio figlio per stare con me stessa in modo diverso: “mi sono portata a pranzo”, “mi sono portata a visitare un tempio” e così via. Lui non sapeva che, dentro di me, seguivo una programmazione interna, quando gli dicevo: “Oggi non pranzo con te, ci vediamo dopo”. Ho sentito da allora interiorizzata la motivazione di trattare le separazioni in modo consapevole. Spero che nell’ora della morte io abbia già la mente programmata per pensare: “Oggi non saremo assieme, ci vedremo dopo nelle Terre Pure.
Quando la separazione di una persona cara è inevitabile, c’è il rischio di abbandonarci e andarsene con lei”. Il risultato sarà che ci sentiremo vuoti e melanconici, perché non abbiamo noi stessi per tenerci compagnia. Dobbiamo imparare a tenere il fuoco della nostra casa interiore acceso, per trovare l’accoglienza del calore interno quando rientriamo a “casa nostra”, contando soltanto su di noi. Così come dovremo sapere “ tornare a casa” al momento della morte.
Secondo il buddismo, quando la mente viene purificata dalle impronte mentali negative, possiamo rinascere nelle Terre Pure dei Budda, dove avremo un corpo e mente puri, vivendo continuamente la pace interiore, e così potremo concludere la nostra evoluzione spirituale per ritornare alla sfera impura del Samsara in condizioni di essere d’aiuto a tutti gli esseri, e così portarli all’ Illuminazione.
Le Terre Pure non esistono di per sé, come un posto “nel cielo”. E’ il risultato dello stato mentale estremamente sottile e puro. Lama Gangchen Rinpoche, nel suo libro NgelSo Autoguarigione Tantrica III, descrive le Terre Pure, quando finalmente avremo raggiunto l’illuminazione, come il completo rilassamento e rigenerazione NgalSo della nostra energia di vita essenziale:
“Quando la mente di luna piena illuminata sorge,
capiamo che le Terre Pure sono state sempre nel nostro cuore,
però il velo dell’attaccamento a se stessi e l’ignoranza,
le visioni comuni e i pensieri comuni,
semplicemente ci impediscono di vederle,
oppure fanno si che le cerchiamo nel posto sbagliato!”
Ho imparato a superare il dolore della nostalgia di mio figlio, quando ho riconosciuto che l’amore che ci nutre emana della fiducia nel nostro legame tra madre e figlio, e così non dipende dal fatto di poterci incontrare o meno. Come ha detto Sogyal Rinpoche una volta nei suoi insegnamenti: “Quando sentiamo che abbiamo ricevuto tutto quello che ci piacerebbe ricevere da una persona, lasciamola andare”. Ossia, la soddisfazione è l’antidoto naturale dell’attaccamento.
Coraggio per andare avanti e realizzare la nostra vocazione
Quando si scopre la propria vocazione, sorge in noi, simultaneamente, un profondo sentimento di coraggio. Ci sentiamo molto vicini a noi stessi quando capiamo la verità interna che non può essere più negata. Di conseguenza, c’è l’impegno all’idea di abbandonare tutto quello che ci impediva d’andare in direzione al nostro destino.
“Andare incontro al proprio destino è realizzare pienamente il potenziale che è stato sempre dentro di noi. È come udire un appello e rispondergli, far sbocciare tutte le nostre potenzialità e seguire una vocazione. E stranamente il mondo ci contraccambia quando facciamo ciò. Un buon modo di sapere se uno è sulla giusta via e che stiamo facendo quello per cui siamo nati, è che il mondo ci apre le porte”.
Joseph Campbell ci dà un ottimo consiglio di come scoprire la nostra vocazione nel suo libro “Riflessioni sull’Arte di Vivere”: “Quando Jung decise di tentare di scoprire il mito secondo il quale viveva, si domandò, “Qual'era il gioco che mi piaceva di più da bambino”? La risposta fu: costruire piccole città e strade di pietra. Così comprò una proprietà e, per gioco, cominciò a costruire una casa. Era un lavoro duro, assolutamente non necessario, poiché Jung aveva già una casa, ma era un modo appropriato di costruirsi uno spazio sacro. Era un puro e semplice gioco. Che cosa, quando eravate bambini, creava una dimensione d'eternità, cancellava la nozione del tempo? Là si cela il mito secondo il quale devi vivere”.
Noi tutti abbiamo bisogno di conoscere la nostra vocazione: quello che abbiamo di particolare da offrire al mondo. Non seguire la nostra vocazione rappresenta un problema sia per noi che per gli altri, perché quando ci arrendiamo all’inerzia della vita, diventiamo anche di peso per coloro che sono intorno a noi.
Jean Yves Leloup nel suo libro “Strade per la Realizzazione”, fa l’analisi della storia di Giona e la Balena, raccontata nell’Antico Testamento della Bibbia: ci può insegnare sulle paure e le resistenze con cui affrontiamo la ricerca per la nostra vocazione.
Dio ordina a Giona d’andare nella violenta città di Ninive a predicare la Sua Parola. Giona, però, gli disobbedisce e prende una barca per Tarsia, città di balneazione. Si scatena una forte tempesta. I marinai buttano tutto il carico della barca in mare per evitare che vada a picco. Ma il mare continua incredibilmente agitato ed il pericolo del naufragio è imminente. Il capitano decide allora di cercare Giona, che era sceso nella stiva. Quando lo vede sdraiato, dormendo un sonno profondo, gli dice: “Come puoi dormire così profondamente? Come puoi dormire in mezzo a questa disperazione che ci fa soccombere? Alzati, svegliati, invoca il tuo Dio. Forse questo tuo Dio può ascoltarci, forse con questo tuo Dio, non periremo”. Nel frattempo, mentre giocavano a dadi, i marinai preoccupati hanno identificato Giona come il responsabile della perturbazione. Lui finalmente confessa di avere disubbidito a Dio, e chiede di essere buttato in mare. In quel momento la tempesta cessa. Quando viene buttato in mare, Giona viene inghiottito da una balena, dentro la quale rimane per tre giorni fino a quando si pente e chiede a Dio di dargli una seconda opportunità e allora viene rigettato dalla balena e finalmente prosegue per Ninive.
“Quindi, in un primo momento, Giona è l’archetipo dell’uomo sdraiato, addormentato, dell’uomo che non vuole alzarsi e compiere nessuna missione. É l’archetipo dell’uomo che fugge, che fugge dalla sua identità, che fugge dalla sua parola interiore, che fugge da questa presenza del Sé all’interno dell'io. Questa fuga dalla sua voce interiore andrà a provocare un certo numero di problemi all’esterno di lui”. Coloro che rifiutano di conoscersi interiormente e non seguono i loro desideri più profondi, portano dei problemi agli altri!
In un secondo momento, quando Giona - dentro alla balena – decide di ritornare al suo sentiero, non teme più niente. Come scrive Jean Yves Leloup: “ci sono dei momenti in cui non possiamo più raccontarci delle bugie, raccontarci delle storie. Noi siamo costretti ad essere autentici, non possiamo più scappare. L’archetipo di Giona è anche un invito a tuffarci nelle profondità del nostro inconscio, per passare attraverso le ombre, per tuffarci nella nostra esperienza della morte, ed accettare che il nostro essere è mortale, per scoprire, in noi, quello che non muore”.
Nyang-de: andare oltre al risentimento
Se decidiamo di diventare qualcuno che si dedica con tutto il cuore ad utilizzare la vita per la sua rinascita, il suo ‘risveglio’, dobbiamo superare le difficoltà e lo sconforto dei mutamenti.
Quando siamo coscienti che abbiamo delle resistenze per accettare un cambiamento imminente, è utile domandarci: “Cosa dovrà morire adesso dentro di me, per nascere in questa nuova fase con forza e fiducia?” La risposta è sicura: I nostri risentimenti.
Tenersi dei risentimenti ci fa sentire stanchi e senza voglia di iniziare nuovi progetti, i risentimenti rivelano quanto siamo paralizzati dalle limitazioni. Interne ed esterne. Rimanere legati ai risentimenti consuma la nostra energia vitale.
Il Dalai Lama ha spiegato che il termine tibetano per nirvana è nyang-de, che si traduce letteralmente “oltre il risentimento”. In questo contesto, risentimento fa riferimento alle afflizioni mentali; in modo che il nirvana realmente designa lo stato d’essere libero dalle emozioni e dai pensieri angoscianti. Il nirvana è l’immunità alla sofferenza e alle cause della sofferenza. Quando percepiamo il nirvana in questi termini, cominciamo a renderci conto del significato veritiero della felicità genuina. Possiamo allora visualizzare la possibilità di liberarci totalmente dalla sofferenza.
Ogni volta che saremo capaci di interiorizzare e ascoltare la nostra paura saremo in grado di maturare il nostro potenziale di coraggio. Quando riconosci la paura, ripeti a te stesso: “Io ti conosco, so dove mi porti, non ho più voglia di seguirti”. Concentrati, allora, nell’intenzione di esprimere la tua vocazione. E finalmente ricordati: non tutto quello con cui ci affliggiamo ci succede. Novanta per cento delle nostre paure sono soltanto delle abitudini, idee preconcette. Muoviti verso il futuro, fidati di lui!
Estratto dal libro “O livro das Emoções” Editora Gaia – SP; Brasile - Bel Cesar
Bel Cesar è psicologa e teraupeta in Brasile, ha studiato Musicoterapia all'Istituto Orff di Salisburgo, in Austria. Pratica la psicoterapia nell'ottica degli insegnamenti del Buddhismo tibetano. E' la mamma di Lama Michel.
da http://www.kunpen.it/
Ogni volta che diventiamo più trasparenti alla nostra propria luce,
restauriamo la luce del mondo.
Rachel Naomi Remen
Il maestro buddista Chogyam Trungpa diceva che lo scopo della vita consiste semplicemente nell’andare avanti e fare della vita una sorta di “risveglio” invece di rimanere “addormentati”. La capacità di continuare ci aiuta a percepire che nessun problema è senza uscita. Andare avanti significa non lasciarsi prendere dall’inerzia, dalla paura o dall’irritazione.
Il miglior modo di liberarsi dal passato è fare la pace con noi stessi al momento presente. Fare la pace con qualsiasi ricordo o sentimento che possa sorgere. In modo che, piano piano, non saremo più “catturati” da questi ricordi.
Facciamo in modo che le antiche immagini di noi stessi vadano via. Continuiamo, semplicemente, a muoverci in avanti. Niente più ci fa fermare. Sappiamo come continuare positivamente, visto che siamo connessi con la nostra fiducia di base, con la nostra bontà fondamentale.
Il coraggio è l’abilità di muovesi verso il futuro, senza guardare indietro: staccarsi dal passato. Mi ricordo di un fatto accaduto a Lama Segyu Rimpoche. Lui mi ha raccontato che dopo anni che era andato a vivere negli Stati Uniti, ha trovato a casa della mamma una scatola ancora chiusa, che era rimasta nel trasloco. Non ha avuto dubbi: ha bruciato la scatola senza aprirla. “Così, non avrebbe svegliato la mente dell’attaccamento”, mi ha detto lui. Dopo aver trascorso tanti anni senza avere il bisogno delle cose che c’erano dentro la scatola, non c’era la necessità di aprirla per sapere che il suo contenuto era un “carico extra”. Questo fatto tante volte mi frena a non rovistare nelle storie passate che hanno già esaurito il loro contenuto. Ci sono dei momenti in cui bisogna saper contenere la propria curiosità e bruciare le nostre “scatole”, prima che non siamo più in grado di controllare l’impulso di aprirle.
Ci sono, però, dei momenti in cui andare in soffitta a rovistare nelle “scatole” del passato può essere molto terapeutico. Da quando ho cominciato a scrivere questo libro, ho ripreso l’abitudine di rileggere i miei quaderni d’appunti. Ho sempre avuto l’abitudine di scrivere i miei sogni, sessioni di terapia e frasi principali che ho sentito dai Lama. Adesso, quando leggo delle cose scritte più di dieci fa, percepisco come sono ancora attaccata a certi modelli e come sono riuscita a liberarmi di altri. Qualche sogno era premonitore. Certi insegnamenti, oggi, hanno più impatto su di me, di allora, quando li ho scritti.
Come dice John Welwood: “Visto che l’auto-immagine ha come supporto delle vecchie storie - credenze che noi stessi ci raccontiamo su come è la realtà - fare luce su di esse è un passo essenziale per abbandonare la soggezione ad un’identità”.
Ci vediamo nelle terre pure
Da quando mio figlio, Lama Michel Rinpoche, a 12 anni è diventato monaco ed é andato a vivere al monastero di Sera Me, nel sud dell’India, ho dovuto imparare a dire addio, cioè, a non guardare indietro. Per qualche anno di seguito, ci ritrovavamo soltanto una volta all’anno per due settimane. Avevamo il seguente accordo: all’aeroporto, dopo l’ultimo abbraccio, ognuno doveva andare avanti, senza guardare indietro.
Una volta sono arrivata a programmarmi internamente per vivere queste due settimane di forma “molto consapevole”. Eravamo a Kathmandu, in Nepal. Nella prima settimana ero abbastanza sciolta, senza pensare alla partenza. Poi, nella seconda, mi sono allenata ogni giorno per imparare a separarmi fisicamente da coloro che amo, ispirata nella realtà di dover sapere dire addio alle persone care, quando anche io dovrò morire!
Allora, ogni giorno sceglievo di staccarmi da mio figlio per stare con me stessa in modo diverso: “mi sono portata a pranzo”, “mi sono portata a visitare un tempio” e così via. Lui non sapeva che, dentro di me, seguivo una programmazione interna, quando gli dicevo: “Oggi non pranzo con te, ci vediamo dopo”. Ho sentito da allora interiorizzata la motivazione di trattare le separazioni in modo consapevole. Spero che nell’ora della morte io abbia già la mente programmata per pensare: “Oggi non saremo assieme, ci vedremo dopo nelle Terre Pure.
Quando la separazione di una persona cara è inevitabile, c’è il rischio di abbandonarci e andarsene con lei”. Il risultato sarà che ci sentiremo vuoti e melanconici, perché non abbiamo noi stessi per tenerci compagnia. Dobbiamo imparare a tenere il fuoco della nostra casa interiore acceso, per trovare l’accoglienza del calore interno quando rientriamo a “casa nostra”, contando soltanto su di noi. Così come dovremo sapere “ tornare a casa” al momento della morte.
Secondo il buddismo, quando la mente viene purificata dalle impronte mentali negative, possiamo rinascere nelle Terre Pure dei Budda, dove avremo un corpo e mente puri, vivendo continuamente la pace interiore, e così potremo concludere la nostra evoluzione spirituale per ritornare alla sfera impura del Samsara in condizioni di essere d’aiuto a tutti gli esseri, e così portarli all’ Illuminazione.
Le Terre Pure non esistono di per sé, come un posto “nel cielo”. E’ il risultato dello stato mentale estremamente sottile e puro. Lama Gangchen Rinpoche, nel suo libro NgelSo Autoguarigione Tantrica III, descrive le Terre Pure, quando finalmente avremo raggiunto l’illuminazione, come il completo rilassamento e rigenerazione NgalSo della nostra energia di vita essenziale:
“Quando la mente di luna piena illuminata sorge,
capiamo che le Terre Pure sono state sempre nel nostro cuore,
però il velo dell’attaccamento a se stessi e l’ignoranza,
le visioni comuni e i pensieri comuni,
semplicemente ci impediscono di vederle,
oppure fanno si che le cerchiamo nel posto sbagliato!”
Ho imparato a superare il dolore della nostalgia di mio figlio, quando ho riconosciuto che l’amore che ci nutre emana della fiducia nel nostro legame tra madre e figlio, e così non dipende dal fatto di poterci incontrare o meno. Come ha detto Sogyal Rinpoche una volta nei suoi insegnamenti: “Quando sentiamo che abbiamo ricevuto tutto quello che ci piacerebbe ricevere da una persona, lasciamola andare”. Ossia, la soddisfazione è l’antidoto naturale dell’attaccamento.
Coraggio per andare avanti e realizzare la nostra vocazione
Quando si scopre la propria vocazione, sorge in noi, simultaneamente, un profondo sentimento di coraggio. Ci sentiamo molto vicini a noi stessi quando capiamo la verità interna che non può essere più negata. Di conseguenza, c’è l’impegno all’idea di abbandonare tutto quello che ci impediva d’andare in direzione al nostro destino.
“Andare incontro al proprio destino è realizzare pienamente il potenziale che è stato sempre dentro di noi. È come udire un appello e rispondergli, far sbocciare tutte le nostre potenzialità e seguire una vocazione. E stranamente il mondo ci contraccambia quando facciamo ciò. Un buon modo di sapere se uno è sulla giusta via e che stiamo facendo quello per cui siamo nati, è che il mondo ci apre le porte”.
Joseph Campbell ci dà un ottimo consiglio di come scoprire la nostra vocazione nel suo libro “Riflessioni sull’Arte di Vivere”: “Quando Jung decise di tentare di scoprire il mito secondo il quale viveva, si domandò, “Qual'era il gioco che mi piaceva di più da bambino”? La risposta fu: costruire piccole città e strade di pietra. Così comprò una proprietà e, per gioco, cominciò a costruire una casa. Era un lavoro duro, assolutamente non necessario, poiché Jung aveva già una casa, ma era un modo appropriato di costruirsi uno spazio sacro. Era un puro e semplice gioco. Che cosa, quando eravate bambini, creava una dimensione d'eternità, cancellava la nozione del tempo? Là si cela il mito secondo il quale devi vivere”.
Noi tutti abbiamo bisogno di conoscere la nostra vocazione: quello che abbiamo di particolare da offrire al mondo. Non seguire la nostra vocazione rappresenta un problema sia per noi che per gli altri, perché quando ci arrendiamo all’inerzia della vita, diventiamo anche di peso per coloro che sono intorno a noi.
Jean Yves Leloup nel suo libro “Strade per la Realizzazione”, fa l’analisi della storia di Giona e la Balena, raccontata nell’Antico Testamento della Bibbia: ci può insegnare sulle paure e le resistenze con cui affrontiamo la ricerca per la nostra vocazione.
Dio ordina a Giona d’andare nella violenta città di Ninive a predicare la Sua Parola. Giona, però, gli disobbedisce e prende una barca per Tarsia, città di balneazione. Si scatena una forte tempesta. I marinai buttano tutto il carico della barca in mare per evitare che vada a picco. Ma il mare continua incredibilmente agitato ed il pericolo del naufragio è imminente. Il capitano decide allora di cercare Giona, che era sceso nella stiva. Quando lo vede sdraiato, dormendo un sonno profondo, gli dice: “Come puoi dormire così profondamente? Come puoi dormire in mezzo a questa disperazione che ci fa soccombere? Alzati, svegliati, invoca il tuo Dio. Forse questo tuo Dio può ascoltarci, forse con questo tuo Dio, non periremo”. Nel frattempo, mentre giocavano a dadi, i marinai preoccupati hanno identificato Giona come il responsabile della perturbazione. Lui finalmente confessa di avere disubbidito a Dio, e chiede di essere buttato in mare. In quel momento la tempesta cessa. Quando viene buttato in mare, Giona viene inghiottito da una balena, dentro la quale rimane per tre giorni fino a quando si pente e chiede a Dio di dargli una seconda opportunità e allora viene rigettato dalla balena e finalmente prosegue per Ninive.
“Quindi, in un primo momento, Giona è l’archetipo dell’uomo sdraiato, addormentato, dell’uomo che non vuole alzarsi e compiere nessuna missione. É l’archetipo dell’uomo che fugge, che fugge dalla sua identità, che fugge dalla sua parola interiore, che fugge da questa presenza del Sé all’interno dell'io. Questa fuga dalla sua voce interiore andrà a provocare un certo numero di problemi all’esterno di lui”. Coloro che rifiutano di conoscersi interiormente e non seguono i loro desideri più profondi, portano dei problemi agli altri!
In un secondo momento, quando Giona - dentro alla balena – decide di ritornare al suo sentiero, non teme più niente. Come scrive Jean Yves Leloup: “ci sono dei momenti in cui non possiamo più raccontarci delle bugie, raccontarci delle storie. Noi siamo costretti ad essere autentici, non possiamo più scappare. L’archetipo di Giona è anche un invito a tuffarci nelle profondità del nostro inconscio, per passare attraverso le ombre, per tuffarci nella nostra esperienza della morte, ed accettare che il nostro essere è mortale, per scoprire, in noi, quello che non muore”.
Nyang-de: andare oltre al risentimento
Se decidiamo di diventare qualcuno che si dedica con tutto il cuore ad utilizzare la vita per la sua rinascita, il suo ‘risveglio’, dobbiamo superare le difficoltà e lo sconforto dei mutamenti.
Quando siamo coscienti che abbiamo delle resistenze per accettare un cambiamento imminente, è utile domandarci: “Cosa dovrà morire adesso dentro di me, per nascere in questa nuova fase con forza e fiducia?” La risposta è sicura: I nostri risentimenti.
Tenersi dei risentimenti ci fa sentire stanchi e senza voglia di iniziare nuovi progetti, i risentimenti rivelano quanto siamo paralizzati dalle limitazioni. Interne ed esterne. Rimanere legati ai risentimenti consuma la nostra energia vitale.
Il Dalai Lama ha spiegato che il termine tibetano per nirvana è nyang-de, che si traduce letteralmente “oltre il risentimento”. In questo contesto, risentimento fa riferimento alle afflizioni mentali; in modo che il nirvana realmente designa lo stato d’essere libero dalle emozioni e dai pensieri angoscianti. Il nirvana è l’immunità alla sofferenza e alle cause della sofferenza. Quando percepiamo il nirvana in questi termini, cominciamo a renderci conto del significato veritiero della felicità genuina. Possiamo allora visualizzare la possibilità di liberarci totalmente dalla sofferenza.
Ogni volta che saremo capaci di interiorizzare e ascoltare la nostra paura saremo in grado di maturare il nostro potenziale di coraggio. Quando riconosci la paura, ripeti a te stesso: “Io ti conosco, so dove mi porti, non ho più voglia di seguirti”. Concentrati, allora, nell’intenzione di esprimere la tua vocazione. E finalmente ricordati: non tutto quello con cui ci affliggiamo ci succede. Novanta per cento delle nostre paure sono soltanto delle abitudini, idee preconcette. Muoviti verso il futuro, fidati di lui!
Estratto dal libro “O livro das Emoções” Editora Gaia – SP; Brasile - Bel Cesar
Bel Cesar è psicologa e teraupeta in Brasile, ha studiato Musicoterapia all'Istituto Orff di Salisburgo, in Austria. Pratica la psicoterapia nell'ottica degli insegnamenti del Buddhismo tibetano. E' la mamma di Lama Michel.
da http://www.kunpen.it/