di Bel Cesar
Quando ci diciamo: “Ho fatto quanto potevo e non è andato bene” più di tre volte sullo stesso soggetto è ora di desistere: andarsene, sconnettersi dalla fonte della frustrazione.
Desistiamo da qualcuno o da una situazione quando facciamo la decisione di non lasciarci più toccare da essa. Non basta non volerla più. É necessario andare avanti, cioè, non aver più bisogno né di sentire né di parlare su qualcosa o qualcuno che ci porti a sentire innumerevoli volte che le nostre attitudini sono inutili e perciò rifiutabili.
Desistere dalla frustrazione non è un’ attitudine di non curanza in cui sembriamo disprezzare l’ oggetto, ma dentro continuiamo ad accumulare ogni volta più risentimento. Abbandonare la frustrazione è una scelta che avviene dalla maturità di aver osservato e riflettuto su come ci coinvolgiamo continuamente nelle situazioni che non vogliamo più vivere.
Se ascoltiamo i nostri risentimenti, essi rivelano le nostre false speranze: siamo ancora in attesa della giustizia e del riconoscimento di colui che ancora ci danneggia.
È come se avessimo la speranza segreta di poter fare la pace con il nemico, di essere amati da lui. Intanto sappiamo che non si può accontentare tutti.
Dobbiamo affrontare la realtà umana che non verremo amati da tutti. In fin dei conti, amare è un riflesso del nostro interiore: chi ama incondizionatamente ha già superato da molto questa necessità (impellente) di essere amato “in qualsiasi modo”.
Sperare in rinforzi positivi come elogi e ringraziamenti da quelli che ci frustrano è una trappola che ci rende ogni volta più prigionieri della frustrazione.
Lascia andar via la frustrazione: dà a te stesso una nuova opportunità, una nuova vita. Finché carichiamo il pesante carico emozionale delle nostre frustrazioni, avremo una vita non soddisfacente.
Il segreto è mantenere il rapporto con il reale: stringi i tuoi rapporti con quelli che realizzano quello che dicono e metti da parte quelli che sperperano il tuo tempo.
È meglio che siamo più selettivi nei nostri rapporti: cercare di stare con quelli che incontrano sempre una maniera di tirarci su, perché gli fa piacere vederci su, poiché vedono nella competizione una perdita di tempo e credono che privilegiare l’altro sia il miglior risparmio per arricchire la nostra partecipazione in questo mondo.
Oggigiorno sono abbastanza comuni i rapporti competitivi. Molto spesso, abbiamo imparato da piccoli a cercare relazioni che ci sfidino: il piacere del gioco veniva dalla sfida, dalla capacità di disputare il miglior posto, o la miglior situazione. Come quando giocavamo a nascondino: vinceva quello che non veniva trovato perché riusciva a rimanere da solo, zitto, nel buio. Ossia, sapeva come sopportare tutto da solo.
Chiaro che è necessario imparare a difenderci, ma dobbiamo anche saper creare vincoli che siano basati nell’ essere compagni; situazione in cui ognuno dona la sua energia all’altro perché sa che vale la pena sommare forze. Ma nella nostra società capitalistica, vediamo il mondo come una costante minaccia, perciò tendiamo più a difenderci, che creare la complicità che dia benefici al nostro mondo.
Pertanto dobbiamo cambiare obiettivo: smettere di competere ed imparare a fare insieme.
Per cui dobbiamo accorgerci che abbiamo già sviluppato la nostra forza: non ci servono più situazioni o persone che ci sfidino per poterci ricordare quanto siamo capaci di sopportarne.
Lasceremo l’abitudine di crearci sfide per manifestare la nostra forza interiore soltanto quando saremo in grado di usarla con l’ intenzione chiara, cioè quando ci decideremo a non coltivare più rapporti basati sulla dipendenza o sulla paura.
In questo modo, dobbiamo capire la differenza fra le sfide che stimolano il nostro sviluppo e quelle che ci rendono soltanto più difensivi, carenti e deboli.
Desistiamo da una frustrazione quando finalmente concludiamo che il nostro impegno nella vita significa essere capaci di eliminare tutto ciò che genera la negatività. Così, se ci offrono un piatto di riso, ma ci dicono che c’è dentro un grano avvelenato, rifiutiamo tutto il piatto. Possiamo addirittura rispondergli: No, grazie, di negatività sono già sazio!
Traduzione di Isabela Bisconcini
Quando ci diciamo: “Ho fatto quanto potevo e non è andato bene” più di tre volte sullo stesso soggetto è ora di desistere: andarsene, sconnettersi dalla fonte della frustrazione.
Desistiamo da qualcuno o da una situazione quando facciamo la decisione di non lasciarci più toccare da essa. Non basta non volerla più. É necessario andare avanti, cioè, non aver più bisogno né di sentire né di parlare su qualcosa o qualcuno che ci porti a sentire innumerevoli volte che le nostre attitudini sono inutili e perciò rifiutabili.
Desistere dalla frustrazione non è un’ attitudine di non curanza in cui sembriamo disprezzare l’ oggetto, ma dentro continuiamo ad accumulare ogni volta più risentimento. Abbandonare la frustrazione è una scelta che avviene dalla maturità di aver osservato e riflettuto su come ci coinvolgiamo continuamente nelle situazioni che non vogliamo più vivere.
Se ascoltiamo i nostri risentimenti, essi rivelano le nostre false speranze: siamo ancora in attesa della giustizia e del riconoscimento di colui che ancora ci danneggia.
È come se avessimo la speranza segreta di poter fare la pace con il nemico, di essere amati da lui. Intanto sappiamo che non si può accontentare tutti.
Dobbiamo affrontare la realtà umana che non verremo amati da tutti. In fin dei conti, amare è un riflesso del nostro interiore: chi ama incondizionatamente ha già superato da molto questa necessità (impellente) di essere amato “in qualsiasi modo”.
Sperare in rinforzi positivi come elogi e ringraziamenti da quelli che ci frustrano è una trappola che ci rende ogni volta più prigionieri della frustrazione.
Lascia andar via la frustrazione: dà a te stesso una nuova opportunità, una nuova vita. Finché carichiamo il pesante carico emozionale delle nostre frustrazioni, avremo una vita non soddisfacente.
Il segreto è mantenere il rapporto con il reale: stringi i tuoi rapporti con quelli che realizzano quello che dicono e metti da parte quelli che sperperano il tuo tempo.
È meglio che siamo più selettivi nei nostri rapporti: cercare di stare con quelli che incontrano sempre una maniera di tirarci su, perché gli fa piacere vederci su, poiché vedono nella competizione una perdita di tempo e credono che privilegiare l’altro sia il miglior risparmio per arricchire la nostra partecipazione in questo mondo.
Oggigiorno sono abbastanza comuni i rapporti competitivi. Molto spesso, abbiamo imparato da piccoli a cercare relazioni che ci sfidino: il piacere del gioco veniva dalla sfida, dalla capacità di disputare il miglior posto, o la miglior situazione. Come quando giocavamo a nascondino: vinceva quello che non veniva trovato perché riusciva a rimanere da solo, zitto, nel buio. Ossia, sapeva come sopportare tutto da solo.
Chiaro che è necessario imparare a difenderci, ma dobbiamo anche saper creare vincoli che siano basati nell’ essere compagni; situazione in cui ognuno dona la sua energia all’altro perché sa che vale la pena sommare forze. Ma nella nostra società capitalistica, vediamo il mondo come una costante minaccia, perciò tendiamo più a difenderci, che creare la complicità che dia benefici al nostro mondo.
Pertanto dobbiamo cambiare obiettivo: smettere di competere ed imparare a fare insieme.
Per cui dobbiamo accorgerci che abbiamo già sviluppato la nostra forza: non ci servono più situazioni o persone che ci sfidino per poterci ricordare quanto siamo capaci di sopportarne.
Lasceremo l’abitudine di crearci sfide per manifestare la nostra forza interiore soltanto quando saremo in grado di usarla con l’ intenzione chiara, cioè quando ci decideremo a non coltivare più rapporti basati sulla dipendenza o sulla paura.
In questo modo, dobbiamo capire la differenza fra le sfide che stimolano il nostro sviluppo e quelle che ci rendono soltanto più difensivi, carenti e deboli.
Desistiamo da una frustrazione quando finalmente concludiamo che il nostro impegno nella vita significa essere capaci di eliminare tutto ciò che genera la negatività. Così, se ci offrono un piatto di riso, ma ci dicono che c’è dentro un grano avvelenato, rifiutiamo tutto il piatto. Possiamo addirittura rispondergli: No, grazie, di negatività sono già sazio!
Traduzione di Isabela Bisconcini
da http://www.igpt.net/
Bel Cesar è psicologa e teraupeta in Brasile, ha studiato Musicoterapia all'Istituto Orff di Salisburgo, in Austria. Pratica la psicoterapia nell'ottica degli insegnamenti del Buddhismo tibetano. E' la mamma di Lama Michel.
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