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Chiara Inesia


lunedì 24 marzo 2008

PASSIONI RAZIONALI E PASSIONI IRRAZIONALI

dalla tesi di laurea in Psicologia di Andrea Ciacci: "Il percorso umano verso l'individualizzazione di Erich Fromm"


Necrofilia e biofilia
Narcisismo
Fissazione incestuosa
Sindrome di decadimento e sindrome di crescita

Parlando di ‘passioni’, Fromm intende un concetto più vasto di quello di impulso, istinto o pulsione. Mentre questi termini sono stati tradizionalmente utilizzati per denotare spinte innate nell’individuo, intrinseche nella sua natura, alla cui base Freud vede la necessità di riduzione di una tensione (
7), nella concezione di Fromm le passioni non sono spinte biologicamente innate, ma derivano da tendenze sviluppate dall’uomo nel corso dell’evoluzione storica, come conseguenza dell’interazione tra esigenze intrinseche alla sua natura (autoconservazione, bisogno di crescita, di espressione delle proprie potenzialità, di libertà) e condizioni ambientali. Tanto le passioni più nobili quanto le più aberranti non sono dunque parte di una natura umana immodificabile, ma costituiscono piuttosto il prodotto dell’evoluzione umana e della storia: l’uomo è la continua conquista dello sforzo dell’umanità verso la propria individuazione e la stessa natura umana si crea in tale processo.

L’uomo è dunque un prodotto della storia, ma nell’affermare ciò Fromm puntualizza la necessità di evitare quell’errore in cui sono caduti certi interpreti del marxismo (e contro il quale lo stesso Marx metteva in guardia): l’uomo si crea, sì, nel corso della storia, ma non bisogna dimenticare che la storia è creata dall’uomo, e che l’uomo stesso è la sua creazione più grande, il prodotto del proprio adattamento dinamico a condizioni esterne, naturali e sociali.
Per adattamento dinamico Fromm intende quel tipo di adattamento che comporti una modifica nella struttura del carattere, mentre l’adattamento statico è costituito dal semplice adattarsi a dei modelli, lasciando immutata la propria struttura caratteriale.

Esempi di adattamento dinamico sono costituiti dalle nevrosi: esse sono considerate da Fromm come il prodotto dell’adattamento dell’individuo a condizioni esterne, specie quelle della sua fanciullezza, in se stesse irrazionali e sfavorevoli al suo sviluppo.
Analogamente, vi sono fenomeni socio-psicopatologici che costituiscono esempi di adattamento dinamico a condizioni sociali altrettanto dannose per gli individui.
Ritengo che qui si possa parlare allora di due tipi di nevrosi o, meglio, di due diversi modi di intendere la nevrosi:

a. come dovuta al mancato adattamento a condizioni esterne dannose; l’individuo nevrotico apparirebbe in tal caso come moralmente superiore al “normale”;

b. come dovuta all’adattamento dinamico, riuscito, a condizioni esterne dannose; in tal caso l’inadattato è il sano, mentre il nevrotico è colui che si adatta ad una società avente caratteristiche nevrotiche.

A prescindere dal fatto che non si possa parlare di società nevrotica se si considera come nevrosi il mancato adattamento alla società (posizione della psicoanalisi e della psichiatria ortodosse) od anche la conseguenza di tale mancato adattamento (che non ritengo sia la stessa cosa), le possibilità dell’individuo che viva in una società non ‘genetico-creativa’ (
8), sono obbligatoriamente due (non intendo dire con ciò che l’individuo possa sempre effettivamente scegliere tra tali possibilità):

1. adattarsi alla società, e con ciò divenire nevrotici, anche se non si sarà considerati tali rispetto ad essa;

2. Essere sani, ma restare dei disadattati, ed essere comunque definiti come insani rispetto alla società.

Volendo stabilire quale delle due soluzioni possa essere preferibile, credo che un criterio d’elezione debba essere, conformemente al pensiero di Fromm, quello della felicità umana. Sembra dunque che qui possa crearsi una frattura tra felicità dell’individuo e felicità dell’umanità in generale; ma, ad un esame più approfondito, risulta come tale contrapposizione sia solo apparente, infatti, come d’altra parte Fromm eloquentemente sostiene, le differenze tra le varie società sono differenze etiche nella misura in cui pongono l’uomo e la sua felicità come fine supremo.

Qualsiasi tipo di felicità individuale che possa ottenersi dall’adattamento dinamico ad una società che sia d’ostacolo alla crescita umana non può considerarsi dunque felicità autentica, ma ne costituisce un surrogato, legato alla soddisfazione psicologica derivante dall’adempimento di esigenze sociali in conformità alle quali si sono modellati i propri desideri; d’altra parte, in modo analogo, l’infelicità che può derivare dall’essere inadattati ad una società che sia d’ostacolo allo sviluppo degli individui è una falsa infelicità e può, a patto che non si soccomba dinanzi ad essa, tramutarsi in vera felicità, propria e collettiva, se si riesce a sviluppare la propria individualità a dispetto dell’influsso sociale ed a indirizzare le proprie energie nello sforzo di contribuire a realizzare quelle condizioni, caratteristiche di una società genetico-creativa, che possano favorire la vera felicità nella maggior parte degli individui. Non bisogna infatti dimenticare che la società esercita sì, per effetto del sistema socioeconomico e del modo di vita e di produzione ad essa sotteso, una influenza preponderante sugli individui, ma al tempo stesso i singoli individui, che di tale società fanno parte, hanno la facoltà, in una certa misura per ognuno diversa, di sfuggire al suo influsso deterministico ed al tempo stesso di influire su di essa, contribuendo ad indirizzare il processo sociale di modo che la stessa società possa essere adattata alle esigenze umane.

Con ciò non intendo affermare l’opinione che la propria incapacità di adattarsi alla società non possa essere causa di autentica sofferenza, così come non ritengo che l’adattamento faccia soffrire le persone coscientemente. L’adattamento dinamico, infatti, comporta che nell’agire in conformità con le esigenze sociali la persona provi soddisfazione, appunto in virtù delle conseguenze che tale tipo di adattamento hanno sul suo carattere; d’altra parte un adattamento statico può mantenere la persona sana (con sana intendo sana nell’ottica frommiana), a patto che questa possa “fingere” così a lungo di essersi adattata (in senso dinamico). Ritengo (mia opinione personale) che anche tale situazione risulti alla lunga insostenibile e che tale persona possa essere considerata una “bomba ad orologeria” che può scoppiare in ogni momento o che comunque, nel migliore dei casi, alla lunga soffra più o meno coscientemente della repressione dell’espressione del proprio pensiero critico e della mutilazione della sua vita autentica.

D’altra parte, ritengo che, qualora il non adattamento dell’individuo alla società sia supportato da una certa subcultura o comunque da un gruppo di individui sufficientemente vasto ad evitare che il singolo possa percepire un’eccessiva solitudine morale come conseguenza del proprio dissenso, tale disadattamento potrebbe non essere causa di sofferenza e tra l’altro potrebbe contribuire, tramite l’azione degli appartenenti a tale gruppo o subcultura, ad esercitare una attiva influenza sull’intera struttura sociale, seppur con il rischio del crearsi di una situazione fortemente conflittuale che a certe modalità di azione di una tale minoranza può essere connessa. E seppur con il rischio, per gli appartenenti a questa stessa minoranza, di incombere nelle conseguenze della più cruda repressione che l’apparato statale utilizza nei confronti di chi sfugge a quella repressione assai efficace, ma più sottile, esercitata per tramite dei mezzi di creazione del consenso.

Le passioni irrazionali, quelle tendenze dirette contro la vita costituenti la necessaria conseguenza della frustrazione dell’innata tendenza umana allo sviluppo delle proprie potenzialità, sono il narcisismo, la fissazione incestuosa e la necrofilia.
Tutte e tre queste passioni hanno forme benigne, non necessariamente patologiche, che possono presentarsi isolate ed attenuate da tratti produttivi nella struttura caratteriale della persona, ma nelle loro forme più gravi esse convergono, a formare quella che Fromm definisce ‘sindrome di decadenza’.


(7) Vedi la differenziazione tra psicologia dei fenomeni di carenza e di abbondanza in E. Fromm, “Fuga dalla libertà”, op. cit., pag. 230.
(
8) E. Fromm, “Die Entdeckung des gesellschaftlichen Unbewuten: zur Neubestimmung der Psychoanalyse” a cura di R. Funk (1990); trad. italiana “L’inconscio sociale. Alienazione, idolatria, sadismo”, Mondadori, Milano (1992).

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