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E' mio grande piacere, con questo spazio, mettere a disposizione di tutti ciò che più amo: POESIA, MUSICA, SPORT, MEDICINA, PSICOLOGIA, SAGGEZZA POPOLARE e tanto altro
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Chiara Inesia


domenica 16 marzo 2008

IL COLIBRI'

Il colibri è espressione di gioia e di amore per la vita.
Sa cogliere e gustare la bellezza dei fiori e l'armonia della natura, ma reagisce con la fuga a ogni vibrazione negativa o disarmonica, poiché è orientato verso l'estetica e la bellezza.
La sua medicina consiste nel dispensare gioia e amore, sia nel contatto con i fiori che in quello con uomini e animali.
Molte piante sembrano fiorire e crescere per lui, mentre le aiuta a diffondersi spargendo il nettare che raccoglie.
La magia del colibri è insita nel suo atto di aprire il cuore. Per questo motivo si fa spesso uso in diverse culture delle sue piume per preparare filtri d'amore.
La sua tecnica di volo è unica tra tutti gli uccelli, giacché è in grado di volare in avanti, a ritroso e anche restando fermo nella stessa posizione.
Questo fatto lo mette in una posizione del tutto speciale: secondo le dottrine degli antichi Maya, infatti, il colibri appartiene già di diritto alla prossima epoca, quella del quinto mondo.
Questo piccolo uccello delicato non si cura delle cose del mondo, la sua vita è un ininterrotto inno alla gioia.
Uomini dotati della forza del colibri hanno un'inclinazione del tutto simile: portati all'equilibrio e alla felicità, aiutano volentieri anche gli altri a sviluppare la gioia di vivere e dare il meglio di se.
Come il colibri stesso, disprezzano la bruttezza e il cattivo umore riuscendo sempre a trovare luoghi nei quali la bellezza e l'armonia regnano sovrane.

IL PUMA

Il puma - o leone di montagna - è il simbolo per eccellenza della pura forza.
Questa può naturalmente venire usata a scopi benefici, come possiamo vedere nel caso di capi o guide ispirati da saggezza, oppure per fini e interessi personali, servendo per veri abusi di potere.
Chi osservi con attenzione i movimenti sinuosi, forti ed eleganti di questo grosso felino, può comprendere e imparare come corpo, mente e spirito possano essere portati in uno stato di completa armonia.
Dobbiamo comunque comprendere anche che più energia un individuo ha a disposizione, più diventa difficile e complesso saperla gestire e farne un uso equilibrato e ragionevole.
Il puma ci spinge a tenere fede alle nostre convinzioni più profonde e di attenerci sempre alla verità: queste sono le qualità che caratterizzano una persona in grado di comandare o guidare gli altri.
Ottenere una posizione di comando comporta però anche grandi difficoltà; per esempio è molto difficile riuscire ad accontentare sempre tutti, oppure riuscire a mantenere la pace sociale - o quella tra i popoli - molto a lungo.
Infine si deve badare bene di non diventare oggetto di manipolazioni esterne o di farsi sfruttare da persone senza scrupoli.
Un uomo con l'energia del puma deve evitare di mostrarsi pauroso o troppo fragile e deve essere pronto ad assumersi grandi responsabilità; inoltre dovrebbe cercare di mantenere un certo rispettoso distacco dai suoi simili.

LA RABBIA - COSA E' - COME RICONOSCERLA

di Lidia Fassio

La rabbia è il sentimento più comune insieme all’amore... infatti, proprio il rapporto tra Marte e Venere (asse prima settima) ci parla di due sentimenti che sono fondamentali per la sopravvivenza e, pertanto, li incontriamo entrambi fin dalle primissime fasi della nostra vita; se è vero che tutti sperimentiamo rabbia è altrettanto vero che non tutti sappiamo come agirla e come gestirla per cui vi sono notevoli diversità che, astrologicamente parlando, possono trovare indicazioni nel segno in cui si trova Marte e negli aspetti che esso fa.

Ovviamente, Marte si trova a suo agio nei segni di Fuoco... in cui può esprimersi facilmente e lavorare per difendere o affermare l’identità e la volontà della persona. Può però essere esagerata soprattutto quando viene iper stimolata da pianeti che infiammano e che tendono a farla esplodere ( tipo Sole, Luna e Giove).
L’elemento Aria è quello meno adatto a convogliare Marte (che infatti non ha nessuna sede in questo elemento). L’aria infatti non ama la rabbia e ancor meno la “re-azione”; ha bisogno di gestire e di dirigere tutto con la mente e con la dialettica ragion per cui Marte può essere troppo razionalizzato e, di tanto in tanto, schizzare quasi istericamente, soprattutto sotto forma di violenza verbale.
Terra e Acqua sono poco avvezze ad usare Marte... e, spesso, lo trattengono troppo all’interno. In particolare la Terra incamera la rabbia e cerca di farla diventare resistenza anch’essa pericolosa per gli esuberi.
Anche l’Acqua accumula ma tende a rimestare nel torbido e a produrre risentimenti e rivendicazioni che stagnano in attesa di soddisfazione.

La rabbia quando esplode sembra colpire improvvisamente obbligandoci a “reagire” ed è proprio in questa fase che scopriamo di comportarci in modo non sempre aderente ai nostri ideali e all’immagine che coltiviamo di noi stessi.
Per cercare di comprendere meglio queste dinamiche, è interessante capire e valutare bene che cosa è la rabbia.
Nelle descrizioni del sentimento di rabbia troviamo gradazioni diverse di sensazioni: irritazione, collera, alterazione fino ad arrivare alla rabbia vera che richiede una reazione di scarico della fortissima tensione che si è accumulata all’interno.

La rabbia è fortemente visibile anche sul piano fisico: infatti, il nostro corpo si muove sotto la pressione della rabbia; il viso si arrossa, gli occhi sembrano iniettarsi di sangue, i muscoli si tendono e sembrano spingere in fuori ciò che è trattenuto all’interno.
Marte è infatti un pianeta che tende a proiettarsi fuori e richiama una reazione di affermazione di sé stessi, della propria volontà e forza; Marte vuole provocare un effetto sull’altro e, in questo modo prova la sua forza di impatto sul mondo.

Indubbiamente, non è il fatto in sé che produce la reazione... ma bensì una velocissima valutazione che dà una tonalità precisa alla nostra rabbia, evocando una reazione che può essere diversissima da una persona all’altra. In effetti, la rabbia è quasi sempre collegata a fatti remoti.. non necessariamente è riferita strettamente a cosa sta accadendo in quel determinato momento. Gli scoppi di collera difficili da contenere vanno ad attivare un fuoco perenne che giace sotto il livello della nostra coscienza che però è molto reattivo a “situazioni che abbiano la stessa colorazione emotiva; in pratica, ci sono delle particolari situazioni che ognuno ritiene particolarmente “provocatorie” e queste sono assolutamente personali e si riferiscono a memorie della nostra storia personale.

La rabbia in sé ha uno scopo prevalentemente difensivo; infatti è un meccanismo di difesa che serve a farci capire quando dobbiamo salvaguardarci o addirittura salvarci e, pertanto, si attiva nel momento in cui qualcosa ci blocca o impedisce alla nostra volontà di agire in modo efficace.
Sostanzialmente ci informa che la nostra personalità non può uscire allo scoperto e che qualcosa o qualcuno ci sta schiacciando e ci sta bloccando impedendoci di agire e di farci valere.
La rabbia agisce con una sequenza precisa:

- un avvenimento, situazione o persona

- innesca una provocazione che ci fa irritare

- a quel punto la mente comincia a forgiare incessanti pensieri di collera che generano

- uno stato emotivo che spinge il corpo all’azione

- la tensione diventa fortissima e via via meno gestibile

- i pensieri distruttivi fanno scattare azioni distruttive (insulti, aggressioni o violenza).

E’ chiaro che ciò che innesca la rabbia sono i nostri processi mentali che macinano a velocità turbinosa. La prima cosa da comprendere per poter avere una chance di controllo su di essa è vedere che tutto dipende da noi e non dall’altro.

Continuare a sostenere che è l’altro ad averci provocato vuol dire non creare minimamente le condizioni per poter avere padronanza sulla rabbia. Capire che siamo noi che reagiamo a “qualcosa di nostro” è l’inizio del processo di cambiamento e rappresenta la prima presa di coscienza del fatto che ABBIAMO DELLE EMOZIONI, DEGLI ISTINTI E DEI PENSIERI di cui dobbiamo essere responsabili.


I grandi maestri orientali dicono che bisogna distinguere l’ESSERE dall’AVERE in quanto l’ESSERE è precedente ed è quello che crea l’AVERE.

Solo chi esiste ed è può pensare di avere e non il contrario. In questo modo possiamo capire che ABBIAMO sentimenti, istinti ed emozioni ma che non SIAMO quegli istinti, sentimenti ed emozioni.

Dire “sono arrabbiato” non è corretto perché stabilisce una identificazione totale con il sentimento; dire invece “quella situazione ha fatto scattare la mia rabbia” vuol dire che potremo creare le condizioni affinchè, nella stessa situazione, possiamo avere possibilità diverse di re-agire a ciò che abbiamo sentito.



La rabbia, come abbiamo visto è un fuoco interno, qualcosa che può bruciare tantissimo e della quale, proprio per questo, molte persone hanno paura e, pur di non esploderla, tendono a trattenerla all’interno in modo da non permetterle di distruggere.

Le donne sono i soggetti che, proprio perché hanno una minore dimestichezza con Marte e con i valori Ariete, tendono a trattenere di più la rabbia; molta è anche questione di educazione: esse vengono educate a “piacere” e ad essere “morbide ed accoglienti” e quindi sentono la rabbia marziana come qualcosa di estraneo che potrebbe alienare gli altri; così, quando la sentono la trattengono pensando in questo modo di non sentirla e di non farla diventare distruttiva; rinnegandola pensano di renderla addomesticabile; niente di più erroneo però; la rabbia non si seda, continua a lavorare all’interno fino a trovare strade a volte molto impervie fino a diventare tragiche.


Le donne sono spesso vittime di depressione proprio perché li’ è andata a finire la rabbia non accettata e non portata fuori: così la rabbia ha iniziato a bruciare dentro fino a togliere completamente il rapporto con la vitalità; con la depressione spesso emerge la distruttività sia nei confronti di sé stesse che nei confronti delle loro creature. Quasi tutte le madri che hanno ucciso le loro creature erano “donne arrabbiate” che, nel tempo, sono diventate depresse fino al punto da non vedere più soluzioni né per sé ne’ per i loro bambini.

E’ dunque importante riuscire invece a venire a patti con la rabbia, anche perché niente può essere “trasformato” senza utilizzare questo fuoco che è un vero e proprio fuoco sacro che, una volta accettato, può esprimersi fino a permettere di cauterizzare le antiche ferite e può ricreare il contatto con la propria volontà ed identità.


L’astrologia ha sempre fatto l’associazione tra Marte e il Fuoco e allora proprio da questo possiamo partire per comprendere che la rabbia non ha solo un lato negativo, ma, come tutte le nostre parti e le nostre emozioni, ha una parte nobile addetta alla nostra difesa ed una parte infinitamente trasformante; il fuoco trasforma le cose da uno stato all’altro; trasforma i metalli e li fa diventare morbidi, malleabili e lavorabili: come non pensare che il nostro fuoco interiore non possa essere utilizzabile per la nostra trasformazione?

Il Fuoco cuoce i nostri cibi e li fa diventare digeribili ed assimilabili; così, anche il nostro fuoco interno può esserci di auto nel creare la possibilità di rendere accettabile qualcosa che prima non lo era e di cauterizzare una ferita ancora sofferente.

Un tempo gli alchimisti usavano il fuoco per trasformare il piombo in oro e questo passaggio noi possiamo farlo con i nostri contenuti interni: possiamo dunque lavorare sul nostro piombo fino a farlo risplendere di luce.

Il Fuoco fu regalato agli umani da Prometeo che lo rubò agli Dei simbolo dunque di qualcosa che ora ci appartiene e che può aiutarci nel percorso di consapevolizzazione e di coscienza.


La rabbia richiede prima di tutto attenzione: bisogna “ascoltarla” in modo da saper comprendere per cosa scatta, da dove origina, attorno a quale “bisogno” si è organizzata: anche questo è un modo per restare in contatto con questa emozione senza doverla rimuovere solo perché la sentiamo pericolosa per noi o per gli altri: riconoscere la rabbia significa dare dignità a qualcosa che è fortemente vitale per noi: Marte, infatti, è il pianeta che è in diretto contatto con la vitalità e con l’intenzionalità di Plutone (ed anche con i bisogni più profondi) e per questo coglie qualsiasi cosa (un pensiero, uno sguardo o un’azione) che potrebbe ferirci e, per avvisarci, fa scattare la rabbia.


Riconoscere la rabbia non vuol dire doverla necessariamente esplodere, ma vuol dire aprirsi delle opportunità per imparare a conoscerla e poi gestirla.

Quando si trattiene la rabbia è perché non si vuole ferire; magari si è vissuti in una situazione dove la rabbia “faceva male” e quindi ci si è congedati da lei pensando che in questo modo non si farà più del male.

Gestire la rabbia vuol dire anche poter riutilizzare l’energia che prima era interamente sacrificata nell’operazione di trattenere ciò che avrebbe voluto uscire. E’ quindi sempre un’operazione che aiuta a star bene e a darsi valore.

Quando si sta zitti nel momento in cui si subisce un sopruso significa che non si è in grado di gestire quello che sta succedendo sia fuori che dentro.

Chi trattiene la rabbia fa accumuli terrificanti che diventano rancori per sedare i quali vive in una sorta di “trance” nella quale tutto viene attutito, in una parola: “non sentito”.


Vi consigliamo di seguire questi quattro step utili per gestire la rabbia

- la prima operazione è “sentire” la rabbia nel momento in cui è scattata. La rabbia scatta per un bisogno preciso che non è stato soddisfatto oppure quando il nostro spazio viene prevaricato o invaso; fare il primo passo significa cominciare a dire “io sento qualcosa ”, o meglio ancora “io mi sento arrabbiato”; con queste parole, anche se stiamo comunicandole ad un’altra persona, stiamo però parlando solamente di noi stessi, non stiamo accusando nessuno di averci fatto arrabbiare ma stiamo esprimendo un nostro “sentimento” preciso che c’è e che deve essere riconosciuto;


- la seconda fase è quella di riuscire a dire cosa ci sta succedendo. In pratica è una fase in cui “chiediamo attenzione” all’altro perché vogliamo esplicitare qualcosa che stiamo cercando di comprendere meglio per poi poter esprimere. Questa modalità è molto interessante perché apre al dialogo con l’altro e facilita la possibilità sia di farsi conoscere che di conoscere: tra l’altro fa comprendere all’altro che vogliamo chiarire qualcosa che abbiamo percepito in modo particolare; ricordiamo che la rabbia è sempre sollecitata dalla paura, dall’inadeguatezza o dall’impotenza; in questa fase hanno grande importanza le parole che usiamo e il tono che utilizziamo nel comunicare con l’altro: ovviamene è una possibilità che stiamo sperimentando utile sia per noi che per le relazioni;


- in questa terza fase dobbiamo arrivare a dare una descrizione meno sommaria di quello che abbiamo sentito: infatti, la rabbia è un’emozione primaria a cui si aggiungono in genere: delusione, paura, depressione, frustrazione ed è molto importante riuscire a tirare fuori il sentimento secondario perché sarà proprio quello a farci capire cosa ci sta dietro alla nostra rabbia;


- nella quarta fase siamo in grado di portare fuori pienamente i nostri “bisogni”, quelli che – negati – hanno fatto scattare la rabbia che ci sembrava indifferenziata. A questo punto siamo in grado di capire meglio le nostre motivazioni e di esplicitare i nostri bisogni.


E’ chiaro che dopo queste quattro fasi ci accorgiamo che la rabbia si è “smontata” proprio perché abbiamo fatto due passi importanti: abbiamo capito quali sono i comportamenti e le situazioni che fanno scattare la nostra rabbia e, al tempo stesso, abbiamo imparato moltissimo su noi stessi e sui bisogni che dobbiamo cominciare a soddisfare o a far rispettare dagli altri. Queste due possibilità apriranno anche nelle relazioni maggiori spazi di discussione per giungere a quei compromessi che sono fondamentali in un qualsiasi rapporto.


Come possiamo vedere, la rabbia è un fenomeno tipicamente marziano, ma per riuscire a comprenderla e a gestirla, dobbiamo utilizzare prima di tutto la Luna: “sentire” la rabbia è il primo step dopo il quale possiamo cominciare a verbalizzare ciò che abbiamo dentro utilizzando “Mercurio” per giungere, infine, con il pianeta “Venere” a fare una valutazione degli effettivi bisogni e sentimenti che, restando insoddisfatti la fanno scattare.

Come sempre vediamo che le possibilità nascono dall’utilizzo integrato della parte istintiva e di quella razionale.


da http://www.eridanoschool.it/

IL TACCHINO

Il tacchino simboleggia la generosità e la capacità di donare.
Esso infatti sacrifica la sua vita perché altri possano vivere.I
l suo insegnamento per noi uomini può essere così de­finito: non vale la pena di ammucchiare per se stessi beni materiali; è molto più importante imparare a dividerli con gli altri.
La vita va considerata come un bene sacro ed è quindi nostro dovere adoperarci per il bene di tutti.
Persone con l'energia di questo tipo agiscono spesso in maniera altruistica.
Il motivo di questa attitudine non è un qualche represso senso di colpa, ma nasce spontaneo dal riconoscere che il Grande Spirito è presente in tutti gli esseri e che vi è una legge cosmica secondo la quale tutto ciò che doniamo agli altri un giorno verrà donato a noi.
Il tacchino insegna quindi a dividere con gli altri ciò che si possiede.
Se vi appare in sogno, può però anche significare che voi stessi riceverete presto un dono o godrete di una grossa vincita.

LA CORNACCHIA

La cornacchia è la custode dei grandi misteri.
E' l'unico animale che ha la possibilità di trasgredire le leggi di questo mondo, in quanto può trasformarsi in altri esseri viventi oppure essere presente in due luoghi diversi contemporaneamente.
Per la cornacchia passato, presente e futuro perdono il loro significato: essa vive nel vuoto atemporale, senza alcuna percezione del trascorrere del tempo.
Congiungendosi in essa luce e oscurità, per lei la verità interiore e quella esteriore vengono a essere una sola cosa.
Guardiana della legge sacra ispirata direttamente da Dio, essa annuncia che tutto ciò che esiste ed è manifestato viene generato dalla donna.
La legge sacra è qui da intendersi come la legge della verità divina e non va confusa con i comandamenti o con altri dogmi di particolari sistemi religiosi.
Gli individui-cornacchia devono sforzarsi di essere coerenti con le conoscenze di cui sono in possesso e cercare di vivere nella realtà la verità che essi hanno riconosciuto.
Fate del vostro essere più profondo la vostra guida, cambiate la vostra stessa forma e identificatevi già da ora con il vostro sé futuro!
Sospendete per un momento le leggi fisiche e osate volgere lo sguardo direttamente nel vostro domani!

IPOTESI PER UNA BASE SCIENTIFICA DELLA TERAPIA BIOENERGETICA ED OMEOPATICA

di Luigi Marcello Monsellato

L’ETÀ DELL’UOMO
II° semestre 86 – Anno III
Gennaio-Febbraio N. 16

La Medicina Bioenergetica ed Omeopatica, medicine “biologiche”, stanno mietendo notevoli successi in campo nazionale ed internazionale; malgrado ciò, occupano una posizione di contorno nei confronti della medicina ufficiale.
Questo è dovuto anche alla mancanza di una base biologica, che possa far da fondamento a tali medicine. In conseguenza di tale mancanza, si sono sviluppati due atteggiamenti: uno mistico, di adesione totale ai dettami delle medicine biologiche, rifiutando persino una ricerca scientifica al riguardo, l’altro di scarsa considerazione, da parte del corpus medico allopatico.

Quello di cui desidero parlarvi oggi è una proposta fisico-chimica della medicina omeopatica e bioenergetica: il concetto base, comune ad entrambe, l’unità fisico-emozionale. Le modificazioni del soma sono le conseguenze di modificazioni del nucleo emozionale, anzi queste ultime costituiscono la premessa di una malattia. Infatti nella mia pratica professionale non ho mai visto un ulceroso, che non avesse avuto carenza di tenerezze da parte di qualcuno dei genitori, non ho visto mai un ipertiroideo sereno, ottimista, tranquillo, e così via.

Pertanto, i fenomeni somatici e quelli psichici sono visti nell’ambito di una concezione unitaria: le malattie altro non sono che gli esiti di processi globali, che investono tutto l’organismo e che, nel caso della medicina omeopatica, sono chiamati miasmi, nel caso della medicina bioenergetica blocchi energetici. In entrambi i casi l’azione terapeutica non persegue il sintomo, ma cerca di modificare in senso positivo e di riequilibrare il terreno, turbato dal miasma o dal blocco.
Secondo la fisica classica, la materia vivente è in equilibrio, quando non eroga energia con l’ambiente esterno. In tal modo si dice che essa è statica e che ogni modificazione del suo stato è realizzabile, solo grazie all’intervento di un agente esterno. Nell’enunciato del Secondo Principio della termodinamica, un sistema è in equilibrio quando ogni suo componente tende a disporsi spontaneamente nella maniera più caotica possibile, quando tende, in termini più ortodossi, alla massima ENTROPIA. Stando così le cose, la fisica classica non può affrontare il problema dell’autorganizzazione della materia vivente, la sola che può giustificare comportamenti autonomi e spontanei, distinti dai comportamenti preprogrammati e cibernetici dei robots.

Spetta alla fisica quantistica e statistica dare un grosso contributo alla risoluzione di tale problema. I sistemi biologici sono caratterizzati dall’essere ordinati, in modo del tutto spontaneo, senza cioè l’intervento di alcun agente esterno. Essere ordinati in questo campo vuol dire essere coerenti, dove per coerenza di un sistema si intende che tutte le componenti del sistema vibrano all’unisono, hanno tutte la stessa frequenza vibrazionale, o che tutte le reazioni biochimiche del sistema sono rigorosamente ordinate. Il concetto di coerenza è importante, per rendersi conto della stretta correlazione che esiste tra ciò che accade in punti diversi e lontani del sistema biologico (pensiamo al meccanismo di azione dell’agopuntura o della riflessoterapia, o ai molteplici effetti di un rimedio omeopatico o di una seduta bioenergetica). Inoltre, i sistemi biologici sono caratterizzati dalla capacità di scambiare grandi quantità di energia, per cui, per il Secondo Principio della termodinamica, sono lontani dall’essere in equilibrio. Un uovo di gallina emette 6 Kilocalorie di energia termica per grammo e per giorno, nelle 24 ore, del quarto giorno del suo sviluppo; nel sedicesimo giorno, quando cioè sta tendendo ad un certo equilibrio, esso emette 1 Kilocaloria per grammo e per giorno.

La scuola di Prigogine, premio Nobel per la Fisica, ha studiato, in maniera dettagliata, le proprietà termodinamiche della materia vivente e ha messo in evidenza che la connessione fra allontanamento dall’equilibrio e comparsa spontanea di ordine può benissimo chiarire i fenomeni biologici. Il cardine di tale ipotesi è che si può creare ordine interno solo in un sistema che, essendo lontano dall’equilibrio, eroga ed assorbe con l’ambiente esterno una grande quantità di energia.
Tale sistema si definisce dissipativo. In altri termini, un sistema può essere ordinato all’interno, solo se è immerso in un grande flusso di energia, che lo attraversi, senza però fermarsi per molto tempo. Un eventuale ingorgo di energia, cioè la possibilità che il sistema assorba energia senza scambiarla con l’ambiente esterno, distruggendo la dissipatività, distrugge anche la coerenza interna del sistema. Frohlich, uno studioso tedesco, ha proposto un modello, per applicare la scoperta di Prigogine e della sua scuola alla materia vivente.

L’acqua e tutti i sistemi macromolecolari, come quello delle membrane cellulari, per le loro proprietà elettriche possono essere paragonate a dei dipoli elettrici, cioè ad una coppia di cariche uguali, una positiva e l’altra negativa, separata da una certa distanza e caratterizzata da un modo di vibrazione.
Tale dipolo, come una calamita, attrae altri dipoli, che hanno la stessa frequenza vibrazionale, come due pendoli legati fra loro; così facendo, aumenta la loro frequenza vibrazionale, per cui attrarranno dipoli con frequenza vibrazionale maggiore a quella di partenza. Così si viene a creare un’onda di frequenza uguale a quella di risonanza che, propagandosi nel mezzo circostante, induce le altre molecole ad oscillare all’unisono. Il modello di Frohlich permette di dare ordine alle reazioni biochimiche, in modo che avvengano velocemente e ordinatamente e realizza in tal modo la dissipatività, in un sistema biologico, che deve essere capace di erogare tutta l’energia che riceve.

D’altra parte, i sistemi biologici non hanno sempre caratteristiche dissipative. Infatti, molto spesso purtroppo, accumulano e conservano energia per lungo tempo, come avviene per esempio per i pigmenti fotosintetici delle piante o, venendo a noi, le fibre muscolari contratte.
La contrazione muscolare è un modo importante e frequente di immagazzinare energia, sottraendola ai meccanismi dissipativi. Pertanto l’apparato muscolare negli animali e nell’uomo è un regolatore essenziale dell’equilibrio fra conservazione e dissipazione energetica. Il meccanismo conservativo è stato studiato dal russo DAVYOOV e si fonda sull’esistenza di particolari deformazioni delle catene molecolari, conseguenza di eccitazioni prodotte da cause esterne ( reazioni chimiche, radiazioni, ecc.), capaci di viaggiare per molto tempo su di esse e di trasportare energia a grande distanza. L’interconnessione tra il meccanismo dissipativo e quello conservativo ci può spiegare l’autoorganizzazione della materia vivente, che si lega immediatamente al meccanismo dissipativo (il più importante tra i due meccanismi), svolgendo quello conservativo un ruolo di innesco di quelle reazioni, che poi portano al meccanismo di Frohlich.

Interessante, a questo punto, il riferimento a livello molecolare di come possa operare il principio di espansione e contrazione, intuito per primo da Reich, come principio fondamentale di funzionamento della materia vivente. Recentemente queste ipotesi sono state suffragate da scoperte ed esperimenti unici. Webb, attraverso lo spettrofotometro raman-laser, ha messo in evidenza, all’interno delle cellule, un sistema di vibrazioni elettriche, svolgenti un ruolo chiave di regolazione delle funzioni biologiche, che dovrebbero propagarsi nella materia vivente, sotto forma di filamenti. Infatti negli Stati Uniti d’America, col microscopio elettronico ad alto voltaggio, si è riscontrato all’interno del citoplasma cellulare una rete microscopica di filamenti proteici, svolgente un ruolo dinamico nella vita della cellula. Riepilogando, le vibrazioni elettriche coerenti, che si realizzano nel meccanismo dissipativo, regolano, sia le funzioni metaboliche, sia la sequenza e la velocità delle reazioni biochimiche intracellulari.
Tale rete di vibrazioni è una rete di comando, immanente alla materia vivente, ben distinta dalla rete delle correnti nervose.

A

UOMO > DUE RETI DI COMANDO

B

A - VIBRAZIONI ELETTRICHE COERENTI, responsabili del funzionamento autonomo del vivente (e paragonabili all’ES di FREUD)

B - CORRENTI ELETTRICHE NERVOSE, responsabili dei comportamenti volontari o superiori (e paragonabili all’IO freudiano)

CONSIDERAZIONI
Da quello che ho appena esposto, si estrapola un primo dualismo: le onde elettriche coerenti, che regolano le reazioni enzimatiche dell’organismo, controllano il soma, e, quando sono soggettivamente percepite, vengono a coincidere con le emozioni, nel senso reichiano del termine.
Pertanto possiamo così schematizzare:
SISTEMA DI FROHLICH = SISTEMA EMOTIVO = ES FREUDIANO.

La rete di correnti elettriche nervose, invece, è identificabile all’IO freudiano; il dualismo tra questi due sistemi di comando e la loro interazione è alla base del dualismo IO-ES, scoperto da Freud. Il secondo dualismo che si ricava dall’esposizione sull’ipotesi biologica della dottrina bioenergetica è che le onde elettriche coerenti sono contemporaneamente regolatrici di reazioni biochimiche ed emozioni: da ciò si ha l’idea dell’unità fisico-emozionale dell’essere umano.
Come si forma il blocco energetico? Quando si ha la distruzione della condizione dissipativa, o meglio si ha il passaggio da una condizione dissipativa ad una conservativa, si ha un ingorgo di energia, ovvero un blocco energetico. Infatti un sistema biologico deve essere dissipativo, autocatalittico, altrimenti non si autoordina.

Quando l’energia resta immagazzinata nel sistema, si ha un blocco energetico verso l’esterno, con contemporanea disorganizzazione e distruzione dell’ordine interno: si ha la tendenza del sistema vivente a diventare un sistema inanimato (Reich ha descritto in maniera egregia questo processo nella sua teoria del cancro, come malattia della rassegnazione).
Ma quali sono le cause del blocco energetico? La concezione storica dei blocchi energetici e dei miasmi omeopatici ci fornisce una chiave indispensabile, per comprendere lo sviluppo della specie umana ed il sorgere della sua patologia. È nell’interazione individuo-ambiente esterno, che vanno ricercate le radici dei vari processi morbosi, che affliggono l’umanità. L’individuo singolo non ha autonomia dal punto di vista biologico, ma esiste come membro della specie: riscopriamo l’affermazione forse più importante della teoria reichiana: un organismo vivente, in quanto tale, ha bisogno di dissipare, di scambiare, attraverso le sue pulsioni, energia con l’ambiente esterno (l’essenza della natura vivente è la tendenza al piacere).

Gli ostacoli della vita quotidiana creano un blocco sociale alla dissipazione, per cui si determina un ingorgo energetico a livello fisico (da cui blocchi, miasmi, malattie), e, dal punto di vista della realtà, l’organismo vivente è obbligato a rifluire verso un’esistenza individuale. La contraddizione sociale diventa una contraddizione biologica. L’idea del riflusso violento di acqua in una mareggiata, quando le onde si infrangono sugli scogli, rende più chiara l’immagine di tale meccanismo, sia a livello fisico che sociale. In altre parole, il divieto sociale ad essere un sistema dissipativo viene riconosciuto dall’io - che ha il controllo della rete superiore di comando, cioè il sistema nervoso - come un dato della realtà, per cui si struttura in maniera tale da dissipare il meno possibile. L’individuo si difende dagli scontri con l’ambiente, pagando però il prezzo con un certo grado di disorganizzazione interna: l’individuo corazzato è un individuo malato.

La malattia pertanto non rappresenta un nemico da annientare, ma paradossalmente identifica la “naturale amica” dell’uomo, in congiunture storiche favorevoli, garantisce il mantenimento della proprietà dell’autoorganizzazione della materia vivente, salvaguardandola dal disordine, conseguente alla mancata dissipazione di energia; l’ordine che salvaguarda è precario, ma è l’unico possibile.

VERSO UN'OMEOPATIA "ORGANISMICA"

di Luigi Marcello Monsellato

L’ETÀ DELL’UOMO
I° semestre 89 – Anno V
Marzo-Aprile N. 29

La Medicina Omeopatica negli ultimi tempi ha incontrato alcune difficoltà di carattere interpretativo ed applicativo, che ne hanno messo in discussione la validità, gettando un cono d’ombra sulla sua efficacia terapeutica.
D’altra parte “tempora currunt” e anche la Medicina ha fatto dei grossi balzi in avanti, dai tempi di Hahnemann ad oggi, tant’è che tuttora è alla ricerca di chiavi interpretative, di fili conduttori, che possano legare i nostri vari livelli fisiologici e le varie nostre strutture psicologiche.

Pertanto è necessario ritrovare una visione d’insieme, una griglia, che ci permetta di vedere l’uomo nella sua interezza, dal livello lesionale, a quello degli apparati, da quello neuro-endocrino funzionale, a quello psico-emotivo. Il che non vuol dire raggiungere una certezza assoluta e stabilizzante, una sorta di fondamento epistemologico, ma costruire un modello interpretativo del reale, provvisto dell’instabilità, ma anche della plasticità dei modelli interpretativi, una sorta di ermeneutica che, nella variabilità costante, tenga dietro alla plasticità dell’esistente. I quattro livelli succitati non sono nella realtà così schematizzati, ma agiscono all’unisono, per la salvaguardia della persona, alla ricerca di nuovi, seppur qualche volta precari, equilibri.

Da questo punto di vista, alla medicina omeopatica classica, anche se nel Settecento ha avuto l’ardire di proporre una realtà psicosomatica (cosa eccezionale per quei tempi!), manca la possibilità di usufruire della visione della moderna psicosomatica, dell’attuale analisi bioenergetica e della recente psicoanalisi. Oggi non ci basta più l’analisi omeopatica tradizionale; oggi si parla per esempio di ristrutturazione, di atteggiamento positivo, di linguaggio non verbale, di Gestalt, di armatura caratteriale, e così via.
Chi raccoglie tali messe di stimoli, chi decodifica i messaggi che ci può trasmettere una tensione muscolare cronica o una Gestalt-aperta? Non certo l’omeopatia classica! Bisogna rifarsi assolutamente alle attuali tecniche psicosomatiche e bioenergetiche che, affiancando e supportando il metodo omeopatico classico (interrogatorio + repertorio), possono darci una visione “organismica”, integrata, della realtà dell’individuo.

Per fare ciò, bisogna interpretare, intuire, e non solo definire e categorizzare, occorre rischiare di capire, di confrontarsi con la realtà, chiedendosi il fine, il come, il perché di un evento o di un comportamento: i perché, non solo come causa, ma come scopo, finalità, come momento teleologico, un buon esempio di ciò che Monod, nel suo Il caso e la necessità, ha chiamato “teleonomia”. In effetti, per portare in superficie i problemi di una persona, dobbiamo correre il rischio di pescare in profondità, sino al nucleo psicoemotivo-comportamentale che, impattandosi e relazionandosi con l’ambiente esterno, induce delle reazioni, le quali, perseverando nel tempo, diventano abitudini e, consolidandosi, danno origine ad un carattere comportamentale.
È proprio questo carattere che, alla lunga, darà i primi sintomi, sino a generare vere e proprie malattie. È in questo incontro-scontro tra il nucleo emotivo e la “periferia” socializzante (genitoriale, scolare, lavorativa, religiosa, ecc.) che si delineano le rinunce, o il controllo, o lo spostamento del soddisfacimento dei bisogni.

Chi di noi non ha temuto di mostrare le proprie emozioni, o le proprie difficoltà emotive, perché credeva di doversene vergognare, per colpevolizzarsi, per timore di urtare la suscettibilità altrui, per paura di influire nel mondo degli altri, per fare qualcosa di scomodo, di non previsto, o che non corrispondesse alle aspettative dei genitori? Ebbene, secondo lo stadio evolutivo in cui si localizza il conflitto psico-emotivo, noi possiamo avere diverse tipologie psicologiche, somatiche e comportamentali che non potranno essere, prima curate e poi riequilibrate, se non si intuisce il senso di ciò che sta accadendo. Se ciò non avviene, rischiamo di favorire e sclerotizzare i tranelli emotivi, che hanno scolpito nel tempo il nostro modo di vivere, e rischiamo, oltremodo, di persistere nel recitare un copione, che non ci appartiene, poiché da altri determinato.

Solo attraverso un’anamnesi adeguata, che si allarga, ad indagare sul vissuto della persona, sulla sua comunicazione non verbale, ecc. si può “comprendere” la storia del paziente e si possono mettere a fuoco le strategie più opportune, per star meglio.
Ogni tecnica, comprese l’omeopatia, che non tenga presente la relazione individuo-ambiente, le relative strutturazioni psicofisiche e i quattro stadi prima menzionati, sarà solo parziale e sintomatica. Bisogna stare attenti agli omeopati classici, cosiddetti Kentisti, che hanno quasi paura del contatto fisico, relegandolo e idealizzandolo in una messe di teorie pseudoscientifiche e pseudoanalitiche, che lasciano il tempo che trovano. Infatti, secondo gli studi dell’Istituto di Dinamica Comportamentale, un evento psicofisico, morboso e non, diviene significativo, “organismico”, solo in quanto acquista un “senso” per l’individuo, cioè diviene in qualche modo estrapolato da un contesto di neutralità ed indifferenza, per divenire proprio e rappresentativo, riassuntivo di tutta la storia personale e collettiva, che ha portato quell’individuo sino a quel punto.

Proprio per questo bisogna partire dall’assunto che il corpo, e ciò che è fisico e biologico, deve costituire con le sue leggi, la sua struttura, la sua forma, la traccia di lettura per il senso, che andiamo cercando. In altre parole, è il biologico che stabilisce i modi inderogabili, attraverso cui si manifesta il cosiddetto psicologico, il quale, per la sua espressione, può usufruire in diversi modi del biologico, ma non può allontanarsi dai confini da esso delimitati.

Confini che non vanno visti in maniera circoscritta e angusta, pensando alle leggi classiche, che regolano la materia vivente, ma, pensando alle leggi ultrastrutturali della fisica quantistica, della biochimica, della biologia molecolare, della enzimologia, della termodinamica, ecc., leggi che palesano e coordinano anche la nostra parte cosiddetta psichica e che sono il “tessuto connettivo” scientifico, che comprova la validità dell’omeopatia. Il biologico inchioda lo psichico e concorre a dargli senso. Il nostro obiettivo non può essere solo il mondo delle immagini della psiche, ma anche quello corrispondente delle immagini pietrificate e “formate” nella carne, che sono quelle della realtà corporea.

È proprio nel corpo infatti che il nostro Sé, il Sé dell’uomo, ha raccolto e impresso la sua storia, i suoi ricordi, il suo programma esistenziale, e la cui comprensione equivale alla compenetrazione del progetto di autocoscienza umana. Il corpo è l’attuazione di tale progetto, non in quanto prefissato a priori, ma in quanto “si fa” incessantemente, in rapporto all’ambiente e alle conoscenze acquisite e in quanto lievita per l’impulso evolutivo filogenetico, che ci accompagna dalla comparsa della prima forma vivente sulla Terra. Perciò è necessario un diverso atteggiamento del terapeuta, che abitudinariamente tende a proiettare sul paziente i propri problemi, i propri blocchi e atteggiamenti nevrotici, perché lui, per primo, non lavora su se stesso, non sperimenta sulla sua “pelle” e con la sua “carne” i propri condizionamenti e indurimenti emotivi, privilegiando magari un approccio parziale, mentale o corticale. A tal punto cosa farà questo terapeuta: darà nuovi modelli comportamentali, altri consigli-ordini, o farà nuovamente sublimare il problema? Così facendo il conflitto ed il conseguente problema saranno solo spostati ad un altro livello, o apparato, con una nuova veste sintomatica, ma il paziente rimarrà ancora imprigionato negli schemi, o dai divieti, che da tempo, e nel tempo, diverse figure istituzionali gli hanno appioppato addosso.

Occorre pertanto un’omeopatia organistica, che apra la porta al linguaggio non verbale, al rafforzamento della personalità, al riequilibrio emotivo, ai blocchi caratteriali, alle tensioni croniche, che attualmente non sono previste e studiate dall’omeopatia classica hahnemaniana, o Kentista; occorre un’omeopatia più “psicoenergetica”, meno sicosica, meno rigida, annosa e decrepita, che apra la porta verso quel complesso di significati personali e collettivi, biologici e sociali, genetici e appresi, contingenti e storici, che sono espressi e incarnati dal mondo delle immagini e dei ricordi e che, nella malattia, o nella tipologia psicofisica, sono seppelliti ed impressi nell’apparente incoscienza della corporeità.

BIBLIOGRAFIA
SANANES R.: Homéopathie et language du corps;
KENT J.: La science et l’art de l’homéopathie;
BATESON G.: Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano;
CHIOZZA L. A.:Corpo, affetto e linguaggio, Loescher, Torino;
GRODDECK: II linguaggio dell’ES, Adelphi, Milano;
LOWEN, A.: II linguaggio del corpo, Feltrinelli Ed., Milano;
AA.VV.: L’ETÀ DELL’UOMO - rivista di educazione e psicologia applicata, di psicoterapia corporea de organismica e medicine bioterapiche -, Ed. C.R.S.-D.E.P., Ferrara.

OMEOPATIA: MEDICINA DELL'UOMO

di Luigi Marcello Monsellato

L’ETÀ DELL’UOMO
I° semestre 86 – Anno III
Agosto-Settembre N. 14

Ogni giorno il concetto di OMEOPATIA è oggetto di dibattiti: da un lato ci sono gli scettici, o i detrattori pervicaci, dall’altro i partigiani appassionati, addirittura gli adepti mistici.
Curiosamente, però, non sanno definirla esattamente: per alcuni l’Omeopatia è il male curato con il male, per altri è la medicina che cura con le piante, per altri ancora è la medicina delle piccole dosi e per molte persone, tenuto conto di queste piccole dosi, è né più né meno una medicina da ciarlatani, destinata a dei «pazzi» suggestionabili.

L’Omeopatia, per definizione, è un METODO TERAPEUTICO, che applica LA LEGGE DI SIMILITUDINE e che utilizza le sostanze medicamentose, a DOSI DEBOLI, o INFINITESIMALI. La legge di similitudine è la formulazione di uno stato di fatto fisiologico, già constatato da Ippocrate e dalla sua Scuola cinque secoli a.C. Si notò, già a partire da quest’epoca, che esisteva spesso un parallelismo d’azione tra il potere tossicologico di una sostanza e la sua azione terapeutica: l’Elleboro bianco, per esempio, che da un punto di vista tossicologico provoca diarree coleriformi, era impiegato con successo nel trattamento del colera. In altre parole, gli stessi agenti che hanno provocato il male, lo guariscono. Nei secoli successivi, altri medici fecero simili constatazioni, ma senza trarne conclusioni pratiche generali.

Occorre attendere la fine del XVIII secolo perché un medico tedesco, Samuele Hahnemann - chimico e tossicologo - approfondisca il problema. Egli si accorse che il chinino, rimedio utilizzato a quell’epoca nel trattamento di certe febbri malariche, provocava tossicologicamente degli eccessi febbrili, simili a quelli per i quali era impiegato, come agente terapeutico. Essendo a conoscenza dei lavori della Scuola Ippocratica, disse allora: «Sembrerebbe che i medicamenti siano capaci di guarire dei sintomi, analoghi a quelli, che essi sono in grado di produrre». Era un’ipotesi, occorreva verificarla. Hahnemann si mise al lavoro e, se da un lato sperimentò su se stesso, sui suoi congiunti e allievi tutte le sostanze medicamentose impiegate a quell’epoca, quali il chinino, l’aconito, la belladonna, il mercurio, ecc., per conoscere l’azione farmacodinamica di queste sostanze sull’individuo sano, dall’altro, conoscendo queste azioni, impiegò queste sostanze in qualità di agenti terapeutici su pazienti, che presentavano sintomi simili a quelli indotti dalla sperimentazione in individui sani.

Constatò allora che la sua ipotesi si verificava, ma a condizione di impiegare come dosi terapeutiche, delle dosi estremamente deboli o addirittura infinitesimali; così per esempio l’Ipeca, che provoca a dosi ponderali nausee e vomiti, guarisce, a deboli dosi, le nausee di un individuo dispeptico; il veleno d’ape, che provoca negli individui sani degli edemi di colore roseo, che insorgono improvvisamente con dolori puntorii e bruciori, migliorati dalle applicazioni di acqua fredda, a dosi infinitesimali migliora o guarisce le eruzioni con dolori puntorii e brucianti, dalla comparsa improvvisa (migliorate dalle applicazioni fredde, ma di tutt’altra origine: un colpo di sole ad esempio, un’orticaria, da causa alimentare o tossica).

E così, con sperimentazioni successive, Hahnemann si accorse che l’ipotesi, inizialmente formulata, si verificava regolarmente. Non era dunque più una semplice ipotesi, bensì una legge della natura, una legge di biologia generale, la legge della similitudine: era nata l’Omeopatia. Eravamo all’inizio del XIX secolo. Hahnemann aveva avuto bisogno di più di dieci anni di osservazione e di sperimentazioni, per giungere a queste conclusioni fondamentali. L’Omeopatia non è dunque, come alcuni vorrebbero far credere, né un’idea strampalata, nata nel cervello di un folle, né una filosofia, né una mistica. È, partendo da un’ipotesi suscitata da fatti clinici, un metodo terapeutico messo a punto dopo anni di sperimentazioni cliniche e tossicologiche, che consiste nel somministrare al paziente, a dosi deboli o infinitesimali, la sostanza che, somministrata ad un soggetto sano, provoca in questi dei sintomi simili, a quelli del paziente.

Ed ora un’ultima osservazione: è sempre necessario integrare tutte le conoscenze mediche e mai essere partigiani o sacerdoti di una sola medicina, sia essa ufficiale, o alternativa. È chiaro che vi sono due vie di professare l’arte medica: fideistica la prima, che esclude per ignoranza e settarismo tutto ciò che si discosta dalla linea terapeutica, che viene seguita, inserita nell’ambito di una visione libera, ampia e aperta della medicina, la seconda. Ribadisco il concetto che non vi è una sola medicina che guarisce, ma soltanto un insieme di sistemi, capaci di guarire il singolo caso. Ogni tentativo di collocarne una al di sopra di tutte le altre, come la sola medicina, che opera la vera guarigione, è un atteggiamento partigiano ed esclusivista, privo di sana ed obbiettiva critica. In una medicina onesta non vi può essere una sola medicina, ma soltanto un insieme di sistemi e di mezzi terapeutici, già collaudati o da verificare, che devono confluire e completarsi in un armonico disegno, il cui fine ultimo è la guarigione del malato.

Concludendo, la Medicina ufficiale e l’altra Medicina, di cui l’Omeopatia è l’espressione massima, devono dunque adattarsi a questa esigenza di onestà, e devono trovare la loro giusta collocazione nell’attuale fase di rinnovamento terapeutico.

PERCHE' OMEOPATIA?

di Luigi Marcello Monsellato

L’ETÀ DELL’UOMO II°
semestre 84 – Anno I
Giugno-Luglio N. 2

In una fredda giornata d’inverno, due porcospini pieni di freddo si strinsero l’uno all’altro per riscaldarsi. Si accorsero però di pungersi reciprocamente con gli aculei, pertanto decisero di separarsi e così sentirono di nuovo freddo.
Prova e riprova, i porcospini alla fine riuscirono a trovare quella giusta distanza che consentiva loro di scambiarsi un po’ di calore senza pungersi troppo. Questo racconto di Schopenhauer ci è utile per riflettere sulle problematiche inerenti ai rapporti interpersonali: fino a che punto possiamo stare vicino all’altro? Quanto calore ci è necessario? Come fare per vivere insieme senza danneggiare l’altro? Cosa ci piace e non ci piace dell’altro? Tali conflitti si sono intensificati ultimamente perché, sempre di più e sempre più spesso, ci interessiamo l’uno dell’altro.
Come scrisse Goethe: «... bisogna considerare ogni cosa come parte di un tutto. Vedi nella parte il tutto, nel tutto la parte».

Comprendere ciò vuol dire comprendere l’unità psico-fisico-emozionale della persona e ricordarsi che all’origine di ogni affezione che può colpire una persona, vi è un «problema» psichico rimosso e non una tegola che, staccandosi dal tetto, ci cade sulla testa. Il disturbo si organizza durante anni di eccessi e di conflitti morali, che lentamente limitano la vitalità del soggetto ed è inutile cercare di curarlo senza risalire alle cause. Tutte queste cause, questi «nodi» usano diversi modi per esprimersi: sogni, blocchi energetici, difficoltà nel rapporto con gli altri, tensione, ma anche attraverso un gesto, un corrugare la fronte, il battere del cuore, così pure tramite il lieve ammonimento della diatesi dell’acido urico, della ipersensibilità del simpatico e, da ultimo, mediante la voce insistente della malattia.

Ebbene, in tale contesto opera la medicina omeopatica, «corpus» terapeutico che, contrariamente a quello tradizionale, positivista, fenomenologico, che segue rigorosamente le leggi causa-effetto, cerca il «senso» di quanto accade, non le cause, secondo una visione analogica, ad personam, che va al centro dell’individuo. Indagare, attraverso la legge dei simili, il legame che unisce la persona alla natura, per mettere in evidenza quanto è nascosto ma, allo stesso tempo, evidente: questo è il significato della Medicina Omeopatica.

Non è un discorso facile. Il mito del pensiero scientifico, oggi così ipertrofico, che porta ad essere oggetto di studio e non soggetto, non può accettare che qualsiasi forma vivente, sia essa animale, vegetale o minerale, racchiuda in sé «momenti» di psichismo collettivo; d’altra parte, l’epoca che stiamo vivendo, un’epoca strutturata sull’onnipotenza dell’io, dalla facciata narcisistica, dove il corpo non ha dignità di esistere, se non in chiave di sperimentazione, ci ha portato ad un allontanamento dalla natura.

Poiché quella omeopatica è una medicina che guarda la persona, al suo insieme così come è ora, com’era e come sarà, spostando il baricentro dal pensato al «vissuto» dell’uomo, alla sua storia, è possibile pensare al superamento delle antitesi mente-corpo. Infatti, il medico omeopatico interroga il paziente sui suoi sogni, sugli aspetti più strani e peculiari, sulle mode, sulle abitudini, sulle sue ore particolari, sugli obiettivi, sul biotipo costituzionale, sulle tensioni, sullo stile di vita, sulla personalità, tutte sfaccettature da collegare ad un’unica sostanza, che le veicola in sé. Il rimedio omeopatico è «vivo», dotato di uno specifico significato o «intelligenza».
Assumerlo significa riproporre dentro di noi il suo contenuto chimico, così come quello analogico, così come quello simbiotico. Sono sostanze dotate di una loro «personalità», allo stesso modo in cui noi, esseri umani, ci rapportiamo a tutto il mondo circostante, coscienti, nel nostro organismo, delle reazioni biochimiche; ma contemporaneamente determinano uno stimolo specifico, profondo, atto a sintonizzarsi con l’unità psico-fisico-emozionale del paziente.

E questo, grazie anche alla vera e fondamentale scoperta di Hahnemann, quella delle diluizioni e dinamizzazioni omeopatiche, operazioni che fanno sì che la sostanza naturale di partenza non sia più chimicamente rilevabile, superando persino la dimensione atomica: non la fanno scomparire, la trasformano in pura energia.
Si ha così il passaggio, da quella che è definita dai più la farmacologia di massa, ad una farmacodinamica di messaggio: una vera e propria molecola-pensiero, che va nel profondo dell’uomo.
Ed ecco così spiegato come Pulsatilla diventi l’emotività repressa, Grafite la durezza dei sentimenti dovuta alle tante sofferenze e così via.

IL CORVO

Il corvo viene considerato dagli indiani il messaggero della magia.
E' l'ambasciatore del grande vuoto che risiede oltre il tempo e lo spazio, dell'etere dal quale tutto deriva e a cui tutto fa ritorno.
Quando si teneva una cerimonia magica, il corvo era sempre presente per poter assorbire l'energia magica e recapitarla nel luogo a cui essa era mirata.
Con il suo aiuto, è possibile guarire persone ammalate che si trovano anche a grandi distanze.
Coloro che hanno fatto uso di tecniche di magia nera hanno buoni motivi per temere la presenza di un corvo, poiché esso ha il compito di riportare al mandante le energie negative causate da queste pratiche.
Il corvo può aiutarvi a modificare il vostro stato di coscienza e a trovare il coraggio di affrontare il grande mistero.
Osservate il suo manto di penne, come sembri cambiare forma e colore. Dirigete il vostro sguardo nella nera oscurità del vuoto, forse troverete le risposte alle vostre domande!

LA DONNOLA

La donnola è in grado di vedere quel che si nasconde sotto una maschera ed è anche capace di riconoscere un evento dai piccoli segni che lo precedono.
Per questo un tempo era usanza dei re indossare pelli di donnola o d’ermellino.
Gli individui in possesso della forza della donnola vengono spesso sottovalutati poiché grazie alla loro discrezione sanno tenere nascoste le loro conoscenze.
Nel mondo degli affari d'oggigiorno essi sono pressoché imbattibili, giacché tramite la loro acuta capacità d'osservazione sono spesso in grado di prevedere le mosse della concorrenza.
Ciò nonostante la donnola è un animale-totem piuttosto difficile. Spesso le persone in possesso dell'energia della donnola si sentono corresponsabili di ciò che notano o percepiscono in altri individui.
Molte di queste persone finiscono per desiderare solo di essere lasciate in pace, o diventano veri e propri solitari. Il saper troppo, infatti, può diventare a volte un peso insopportabile.
Si può comunque provare a evocare la forza della donnola quando si è alle prese con un problema di difficile riconoscimento.

LA LIBELLULA

La libellula, la creatura del vento, simboleggia l'illusione e il cambiamento.
Le sue ali cangianti ci ricordano tempi e mondi magici, rendendoci coscienti del fatto che la realtà di questo mondo è solo un'apparenza.
Il suo insegnamento ci dice che niente è in realtà come ci appare e che dobbiamo sforzarci di liberarci dalle illusioni dei nostri sensi.
Inoltre essa fa da tramite per portarci messaggi degli elementali e degli spiriti del mondo vegetale.
Quando desiderate effettuare dei cambiamenti importanti, è opportuno evocare l'energia della libellula.

L'ALCE

Il rispetto e la stima di se stessi, cosi come il riconoscere che un processo creativo è stato saggiamente portato a termine, sono qualità ben simboleggiate dall'alce, la forza e l'orgoglio del quale sono veramente impressionanti.
Da lui possiamo imparare a esprimere ad alta voce la nostra gioia per una impresa o un compito portato a termine, cosi come l'alce in calore lancia il suo grido di richiamo in primavera.
Non si tratta qui di andare a cercare consensi o complimenti, ma semplicemente di dare spazio ed espressione al nostro sentimento più bello, quello della gioia, e la gioia del proprio successo può poi anche coinvolgere gli altri.S
pesso proprio le persone più anziane possiedono la forza dell'alce e possono quindi incoraggiare i più giovani e consigliarli su come usare il loro coraggio e arrivare al successo. Essi infatti sanno quando è appropriato essere gentili e amichevoli e quando invece serve dare sfogo alla propria giusta rabbia.
L'alce mostra insomma quanto sia importante sapersi fare coraggio e apprezzare i risultati ottenuti. Allo stesso modo dovremmo imparare a lodare e incoraggiare gli altri, poiché da ciò chiunque può trarre beneficio.

BUDDISMO - aspetti fondamentali

di Fabio Latini

Molto si può dire di quella che è considerata da molti in occidente più una filosofia che una vera e propria religione e per fare chiarezza cercherò di tracciarne un profilo storico, con annessa l‘intenzione di evidenziarne gli aspetti fondamentali.

Le origini

Il fondatore storico del Buddismo è Gautama o Siddharta, principe della tribù degli Shakya, che visse in India nel VI secolo a.c. circa. Non si hanno dati più precisi a causa della mancanza di una tradizione storiografica scritta nell’India di quell’epoca.
Anche sui nomi ci sono varie ipotesi. Infatti Siddharta significa “colui che realizza lo scopo”, ed anche Gautama è un titolo onorifico. Successivamente gli fu attribuito il nome Shakyamuni, ossia il “saggio degli Shakya”, ed è con questo nome che è più conosciuto.
Principe ereditario di un piccolo stato, era stato allevato nel lusso e educato per diventare il re ed il capo militare. A questo scopo la leggenda narra che il padre desiderava che il principe non conoscesse la vecchiaia e la sofferenza e che per questo motivo egli fosse costantemente circondato da giovani, servitori e cortigiane.
Ma la sensibilità e lo spirito di ricerca del giovane principe lo portarono a varcare la soglia del suo rifugio dorato e ad incontrare, come narra la leggenda, un vecchio, un malato ed un cadavere.
Sconvolto da questa rivelazione della realtà della vita, egli arriverà a dichiarare più tardi “Sebbene fossi cresciuto nella ricchezza, ero molto sensibile per natura e mi domandai come mai, quando tutti gli uomini sono destinati a subire la vecchiaia, la malattia e la morte e nessuno può sfuggirvi, pure guardano alla vecchiaia, alla malattia e alla morte degli altri con timore, disgusto e disdegno. Non è giusto pensai, e in quel momento tutta la gioia della giovinezza, e la fierezza e il coraggio che sentivo in me per la mia buona salute mi abbandonarono”.
Consapevole dell’ineluttabilità delle quattro sofferenze di nascita, vecchiaia, malattia e morte, egli decise di abbandonare la reggia del padre per ricercare la via per la salvezza, iniziando un cammino entusiasmante per tutta l’umanità, un cammino che continua ancora oggi.

La vita del Budda
La parola “Budda” o “Buddha” significa “illuminato”. Anche se più tardi questa parola fu associata ad una entità quasi divina, nel suo significato profondo si riferisce ad un essere umano, un “comune mortale”. Ed è questo che fu Shakyamuni, un maestro del grande potenziale dell’umanità.
Per prima cosa Shakyamuni, allontanatosi dal regno paterno, ricercò un maestro da cui apprendere la strada per l’illuminazione. All’epoca vi era una forte tradizione ascetica, che godeva di una grande reputazione derivante dalla cultura brahmanica dell’India, la quale prevedeva 4 fasi nella vita di un uomo. Di queste le ultime due comportavano l’abbandono della vita secolare e la ricerca spirituale tramite l’ascetismo.
Dopo aver praticato con due maestri Yoga e condotto varie pratiche ascetiche, Shakyamuni si rese conto che queste non portavano allo scopo che si era prefisso.
Infatti lo scopo di queste pratiche, e ci riferiamo ai migliori maestri, era al più quello di fare il vuoto nella mente ed ottenere il distacco dai desideri, fino ad annullare la vita stessa. Shakyamuni abbandonò la casa paterna per cercare un qualche principio di verità, qualcosa che gli permettesse di superare le sofferenze fondamentali dell’esistenza, ed ottenere la felicità.
L’ascetismo portava all’isolamento dell’individuo, teso alla ricerca della propria salvezza personale, e quindi non poteva fornire una soluzione per la salvezza degli altri.
Come vedremo in seguito, il Buddismo contempla anche l’autodisciplina, ma questa non è fine a se stessa. Il pensiero buddista può essere meglio riassunto nel concetto di “Via di Mezzo”: “vi è una via di mezzo, o monaci, scoperta dal Thatagata, che evita questi due estremi. Essa apporta la chiara visione e comprensione, conduce alla saggezza ed alla tranquillità, al risveglio, all’illuminazione .. “ .
Questo è il principio che indica che la mente ed il corpo sono inseparabili.
Abbandonate dunque le pratiche ascetiche si concentrò in meditazione, proponendosi di non recedere fino a che non avesse raggiunto l’illuminazione. Sempre secondo la leggenda, giunto allo stremo delle forze, il demone Mara gli apparve, cercando in tutti i modi di impedirgli di raggiungere la meta.
Questo demone altri non era che la personificazione del suo male interiore e dell’oscurità innata di tutta l’umanità. Mara dicevamo tentò in tutti i modi di dissuaderlo, suggerendo dapprima che dovesse riposarsi per ottenere il suo scopo, poi tentando di spaventarlo.
Fu una lotta interiore senza tregua, alla fine della quale Shakyamuni risultò vincitore. In realtà quello che aveva sconfitto era la natura oscurata presente nella sua stessa vita. Sconfiggendo Mara Shakyamuni poté infine ottenere l’illuminazione.

L’illuminazione
Ma che cos’era questa illuminazione cui giunse Shakyamuni? Credo che qualche parola debba essere spesa su un argomento tanto delicato quanto vasto come questo.
Preciso innanzi tutto che se per comprendere pienamente un’esperienza come quella di Shakyamuni bisognerebbe essere noi stessi dei Budda, l’illuminazione non è qualcosa di distaccato ed estraneo alla comune esistenza umana. Le scritture ne danno inoltre versioni diverse e così rischiamo di confonderci ancora di più.
Il termine con cui viene definita l’illuminazione di Shakyamuni è anuttara-samyak-sambodhi, che significa “saggezza insuperata e perfetta”, cioè quella saggezza che arriva a percepire la vera natura dei molteplici fenomeni dell’esistenza.
Si tratta quindi di una comprensione chiara della realtà della vita e della sua essenza, comprensione in grado di cambiare il nostro modo di essere e di agire.
Per trasmettere questa visione della vita così intima è forse utile ripercorrere le tappe dell’ultima notte di veglia in cui, seduto sotto l’albero della bodhi, Shakyamuni raggiunse il suo scopo, così come la raccontano i sutra Agama.
Si narra che Shakyamuni arrivò alla comprensione della realtà ultima in tre tappe.
Durante la prima veglia, dopo aver superato tutti gli stadi di una profonda meditazione, la sua mente divenne “limpida, pura incontaminata, agile e attenta .. Durante questo stadio egli concentrò la mente nel ricordo di tutte le sue precedenti esistenze. Rammentò la prima, la seconda, terza vita e così via attraverso incommensurabili eoni di tempo e innumerevoli formazioni e distruzioni dell’universo …. Non si trattò di qualcosa che gli giunse come un’intuizione .. Era un vero e proprio ricordo, perfettamente chiaro. …. Il brano si conclude con le parole: l’ignoranza perì e fece posto alla chiaroveggenza. … L’uomo non percepisce la natura della sua attuale esistenza perché accecato dall’ignoranza e dall’impurità”. Ciò in sostanza significa che finché l’uomo vive nell’ignoranza continuerà a rinascere nelle condizioni basse dell’esistenza. Questo concetto lo vedremo meglio in seguito.
Durante la seconda veglia Shakyamuni percepì il flusso delle vite delle persone attraverso nascita e morte, cioè la legge del karman. “Acquisii il supremo occhio celeste e vidi il mondo intero come in uno specchio immacolato. Vidi la morte e la rinascita di tutte le creature a seconda che i loro atti fossero stati bassi o elevati … “. Vedendo questa realtà con un “occhio aperto naturalmente” si comprende la direzione della nostra esistenza.
Sulla terza ed ultima veglia, nella quale Shakyamuni completò il processo di illuminazione, ci sono versioni discordi degli studiosi. Da un punto di vista razionale si può affermare che si illuminò alla legge di causalità. In alcune scritture si parla della teoria dei dodici anelli della causalità, tipica del buddismo Theravada, però da un punto di vista che tenga conto della sua storia si capisce come la sua illuminazione andasse al di là di questo concetto.
In tutta la sua vita di predicatore Shakyamuni visse tra la gente, esponendo la Legge o Dharma a cui si era illuminato in accordo con la loro capacità di comprensione. Questo dette origine ad un insieme di insegnamenti che mettono in evidenza aspetti particolari della sua visione della vita. Il concetto di causalità è noto in sanscrito come pratitya-samutpada, che significa letteralmente “origine dipendente” o “produzione condizionata”.
Tutti gli esseri ed i fenomeni dell’universo esistono come risultato di cause. Poiché tutto nell’universo è soggetto a questa legge, niente può esistere indipendentemente dal altre cose o nascere per virtù propria. Questa Legge è anche chiamata “fondamentale interdipendenza di tutte le cose”, sia nello spazio sia nel tempo.
Vorrei concludere questa sezione, che rischia di diventare troppo lunga, con questa poetica descrizione di Ikeda:
“Se guardiamo con occhi sereni al grande universo che ci circonda, scopriamo che ciò che a prima vista appare come un immenso silenzio è in realtà un pulsare continuo di creazione e mutamento. Lo stesso si può dire dell’uomo: invecchia, muore, rinasce e muore nuovamente. Nulla, sia nella natura sia nella società umana, conosce un momento di pausa, di riposo. Tutte le cose dell’universo sono in flusso costante, si levano e ricadono, appaiono e scompaiono, prigioniere di un incessante ciclo di mutamento condizionato …. Tale è la natura della realtà umana. Sono convinto che in un certo senso l’illuminazione di Shakyamuni sia stato un grido di meraviglia di fronte a questa misteriosa entità che chiamiamo vita, con la sua miriade di manifestazioni che si collegano e dipendono l’una dall’altra attraverso gli anelli di causa ed effetto.
Ma l’uomo comune non si rende conto di questa verità e ha l’illusoria convinzione di esistere indipendentemente dai suoi simili. Questa illusione lo allontana dalla legge della vita, che è la verità ultima, e lo rende prigioniero del desiderio, dal quale poi discendono la sofferenza, la tragedia e la sfortuna. Come si è sciocchi e da compatire! Ci si lascia fuorviare dall’ignoranza che è un’espressione del male e non si ha altra via di uscita se non affrontare questo demone che si annida nello spirito dell’uomo.”

La salvezza di tutti gli esseri
Una volta ottenuta la comprensione dell’essenza della vita, Shakyamuni si pose il quesito se dovesse condividere la sua esperienza con gli altri. Questo succede a molti uomini che si avviano verso una ricerca pura e disinteressata. Una volta venuti in possesso di una legge fondamentale o di un principio di vita si rendono conto della loro missione, e decidono di proclamarlo agli altri. Superando ancora una volta tutti i dubbi e le paure decise di predicare la Legge a cui si era illuminato. Si recò pertanto dai suoi ex maestri di ascetismo, che divennero i suoi primi discepoli.
Come dicevo, comprendendo che trasmettere la sua esperienza sarebbe stato molto difficile, Shakyamuni iniziò ad esporre i suoi insegnamenti basandosi sulla capacità dei suoi interlocutori, preparando i suoi discepoli a ricevere il suo insegnamento a livelli sempre più profondi.
Nel corso degli anni sempre più persone si unirono a quest’uomo eccezionale, fino a fondare un vero e proprio ordine, che si manteneva grazie alle offerte dei credenti laici. In questo modo predicò per più di quaranta anni, vivendo tra le sofferenze della gente comune. Spesso si ha una visione del Budda come un essere trascendente distaccato dalla realtà quotidiana, ma questo non era certamente l’uomo Shakyamuni.
La sua dedizione nello stabilire una solida comunità di credenti e nello spiegare l’essenza della filosofia buddista ai suoi discepoli non conobbe soste. Ormai ottantenne continuava a spostarsi senza tregua e, giunto ormai ai suoi ultimi giorni, cercò di preparare i suoi discepoli a diventare indipendenti nella ricerca della loro felicità. Infatti nonostante l’età i discepoli si sentivano al sicuro sotto la sua ala protettrice. ‘Al momento della morte lasciò queste istruzioni relative all’ordine ed alla condotta dei monaci “Perciò siate voi stessi la vostra isola. Prendete il vostro io come rifugio. Non cercate rifugio in altro che in voi stessi. Attenetevi fermamente alla Legge e fate che essa sia la vostra isola e non cercate rifugio in altri che in voi stessi”’.
L’individuo deve arrivare nel proprio intimo a una salda comprensione, limpida e luminosa come uno specchio , e proseguire nella sua strada con questa comprensione come unica compagna.
Nessuna religione dà maggiore importanza del Buddismo alla dignità dell’individuo ed alla sua unicità. Mentre altre religioni riconoscono l’assoluto come qualcosa che esiste fuori dell’io, nel buddismo ciò non avviene’.

Il canone
Alla morte di Shakyamuni i monaci dell’ordine si riunirono in concilio per compilare i suoi insegnamenti trasmessi oralmente. Nacquero così i sutra e l’Abhidharma, l’insieme delle regole di condotta per i monaci. Tutte le scritture composte dopo la sua morte costituiscono il Canone buddista.
Nel primo periodo furono messi in particolare evidenza gli aspetti legati alla disciplina monastica ed alle pratiche ascetiche. Sempre più l’ordine si ritirò in vari monasteri donati da ricchi credenti laici. L’ideale di perfezione a cui si ispiravano dell’arhat, o santo, una meta raggiungibile attraverso la pratica come shomon o shravaka, il discepolo che ascolta l’insegnamento e segue con diligenza le quattro Nobili Verità e L’Ottuplice sentiero. Da questi monaci il Budda era visto come un essere che era vissuto ad un livello troppo elevato per le persone comuni, quindi i praticanti buddisti non nutrivano speranza di eguagliarlo. Ci si “accontentava” pertanto della condizione di arhat o “essere perfetto”. Anche questo stadio però è considerato difficile da raggiungere, ed anche dedicandosi con grande zelo alle pratiche religiose, le possibilità di ottenere l’autentica santità nel corso di una sola vita sono alquanto scarse. Infatti a causa del desiderio l’uomo rischia in ogni momento di soccombere.
“I membri dell’ordine buddista circondarono quindi la propria esistenza di un gran numero di norme e precetti concentrandosi soltanto sulla disciplina monastica. Lo scopo originale del buddismo, condurre le genti alla salvezza, venne del tutto negletto”. Inoltre scoppiavano controversie su chi avesse veramente raggiunto la condizione di arhat e sul modo e sulle prove necessarie per determinare la santità di una persona.

Hynayana e Mahayana
In contrapposizione a quello che avveniva tra i buddisti che si erano ritirati nei monasteri, un altro movimento prese vita e si sviluppò, un movimento collegato alla vita di tutti i giorni, e che si potrebbe impropriamente definire laico. In accordo con l’esempio dato dal fondatore durante la sua vita, alcuni praticanti ritenevano che la vera strada non fosse scollegata dalla vita quotidiana e dalla società nel suo complesso. Questo avveniva circa un secolo dopo la morte di Shakyamuni, una sorta di “riforma” all’interno dell’ordine buddista. Per evidenziare la differenza che li divideva dai “tradizionalisti” dell’ordine, dettero al loro buddismo l’appellativo spregiativo di Hynayana, o “piccolo veicolo”. Al contrario definirono il nuovo movimento Mahayana, o “grande veicolo”.
All’ideale di “ascoltatore della voce” o shravaka viene sostituito quello di bodhisattva, cioè di illuminato che si dedica alla salvezza degli altri. I seguaci del Mahayana annunciarono che non volevano più preoccuparsi della condizione di arhat ma di concentrarsi sull’ottenimento della condizione di Budda. Dicevano: “Shakyamuni non è stato il solo budda. Purché un uomo, ogni uomo, abbia compiuto le pratiche richieste a un bodhisattva dovrebbe poterla raggiungere”.
Le pratiche che avrebbero condotto un bodhisattva alla condizione di budda vengono di solito definite come le sei paramita, o atti in grado di portare all’illuminazione: dono, osservanza dei precetti, pazienza, energia, meditazione ed intuizione. La più importante è il dono, ossia la donazione della legge (o dharma) alla gente sofferente. Il bodhisattva va in effetti tra la gente a predicare la verità del buddismo usando vari metodi, a seconda delle circostanze.
“Il punto fondamentale è che il bodhisattva non si sforza di salvare solo se stesso, ma anzi cerca la via del Budda per avvantaggiare tutti gli esseri”.
Un altro punto di differenziazione è che il Mahayana si propone di cambiare la società nel suo complesso. L’approccio del bodhisattva è attivo e tende ad imporre all’esistenza le proprie condizioni.
Nel corso dei millenni sono apparsi altri grandi filosofi buddisti che hanno approfondito la comprensione della vita. Una disamina accurata di tutti questi importanti contributi e scuole di pensiero esulta per il momento dagli scopi di questo scritto.
Vorrei solo citare il filosofo indiano Nagarjuna, ideatore della teoria della dottrina mediana e del vuoto, il monaco cinese Chi’i Tien Tai (circa 500 d.c.), a cui si deve la teoria di ichinen sanzen, estratta dal Sutra del Loto, la più alta scrittura buddista in cui è racchiusa l’essenza della filosofia di Shakyamuni, ed il monaco giapponese Nichiren Daishonin (1222-1281), che ne rivoluzionò l’interpretazione e la pratica.
Su questi aspetti torneremo successivamente.

L’ultimo giorno
Chiudo questa panoramica sulla nascita del buddismo con un concetto che ritengo importante per capirne la dinamicità e la sua forte spinta riformatrice, in accordo nello spirito con la vita e le azioni del fondatore. Per il buddismo tutto è in divenire. Da questo punto di vista anche l’insegnamento, la Legge a cui un budda si è illuminato ha una durata, cioè è valida per un certo periodo di tempo. Intendiamoci, la legge dell’esistenza non cambia, ma la forma che assume e soprattutto la capacità che ha di condurre le persone all’illuminazione dipende dall’epoca. Per fare un esempio ai nostri giorni nel mondo occidentale è molto difficile poter vivere ritirandosi dal mondo, o perlomeno complicato. Inoltre si rischia di non poter trasmettere il nostro messaggio agli altri. La tradizione divide la durata della Legge del budda Shakyamuni in tre periodi, i cosiddetti primo, medio ed ultimo giorno della Legge, durante i quali il beneficio dell’insegnamento di Shakyamuni perde gradualmente la sua efficacia. Adesso siamo ormai nel terzo periodo, ed anche se l’essenza dell’illuminazione di Shakyamuni rimane valida e vitale ancor oggi, questa è un’epoca in cui una nuova espressione della Legge buddista si accordi ai bisogni dell’umanità.

Desiderata

Va serenamente in mezzo al rumore e alla fretta e ricorda quanta pace ci può essere nel silenzio.
Finché e' possibile senza doverti arrendere conservai buoni rapporti con tutti.
Dì la tua verità con calma e chiarezza e ascolta gli altri, anche il noioso e l'ignorante, anch'essi hanno una loro storia da raccontare.
Evita le persone prepotenti e aggressive, esse sono un tormento per lo spirito.
Se ti paragoni agli altri, puoi diventare vanitoso e aspro, perché sempre ci saranno persone superiori ed inferiori a te.
Rallegrati dei tuoi risultati come dei tuoi progetti.
Mantieniti interessato alla tua professione, benché umile; e' un vero tesoro rispetto alle vicende mutevoli del tempo.
Sii prudente nei tuoi affari, poiché il mondo è pieno di inganno. Ma questo non ti impedisca di vedere quanto c'è di buono; molte persone lottano per alti ideali e dappertutto la vita è piena di eroismo.
Sii te stesso. Specialmente non fingere di amare. E non essere cinico riguardo all'amore, perché a dispetto di ogni aridità e disillusione esso è perenne come l'erba.
Accetta di buon grado l'insegnamento degli anni, abbandonando riconoscente le cose della giovinezza.
Coltiva la forza d'animo per difenderti dall'improvvisa sfortuna. Ma non angosciarti con fantasie.
Molte paure nascono dalla stanchezza e dalla solitudine.
Al di là di ogni salutare disciplina, sii delicato con te stesso.
Tu sei un figlio dell'universo, non meno degli alberi e delle stelle;tu hai un preciso diritto ad essere qui. E che ti sia chiaro o no, senza dubbio l'universo va schiudendosi come dovrebbe.
Perciò sta in pace con Dio, comunque tu Lo concepisca e qualunque siano i tuoi travagli e le tue aspirazioni, nella rumorosa confusione della vita, conserva la tua pace con la tua anima.
Nonostante tutta la sua falsità, il duro lavoro e i sogni infranti, questo è ancora un mondo meraviglioso.
Sii prudente.
Fa di tutto per essere felice.



Questo testo bellissimo viene quasi sempre presentato come "Manoscritto del 1692 trovato a Baltimora nell'antica chiesa di San Paolo".
Invece nel 1959 il reverendo Frederick Kates rettore della chiesa di St. Paul, a Baltimore, Maryland, incluse questo pensiero in una raccolta di materiale devozionale.
In cima alla raccolta, c'era l'annotazione "Old St. Paul's Church, Baltimore, A.C. 1692", che è l'anno di fondazione della chiesa... da qui l'equivoco.
In realtà, l'autore di questi versi è Max Ehrmann, un poeta di Terre Haute, Indiana, vissuto dal 1872 al 1945 e scrisse Desiderata intorno al 1927.

Chappy

Lulù

Kimba il leone bianco

Pinocchio

Lady Oscar

L'Uomo Tigre