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Chiara Inesia


domenica 16 marzo 2008

BUDDISMO - aspetti fondamentali

di Fabio Latini

Molto si può dire di quella che è considerata da molti in occidente più una filosofia che una vera e propria religione e per fare chiarezza cercherò di tracciarne un profilo storico, con annessa l‘intenzione di evidenziarne gli aspetti fondamentali.

Le origini

Il fondatore storico del Buddismo è Gautama o Siddharta, principe della tribù degli Shakya, che visse in India nel VI secolo a.c. circa. Non si hanno dati più precisi a causa della mancanza di una tradizione storiografica scritta nell’India di quell’epoca.
Anche sui nomi ci sono varie ipotesi. Infatti Siddharta significa “colui che realizza lo scopo”, ed anche Gautama è un titolo onorifico. Successivamente gli fu attribuito il nome Shakyamuni, ossia il “saggio degli Shakya”, ed è con questo nome che è più conosciuto.
Principe ereditario di un piccolo stato, era stato allevato nel lusso e educato per diventare il re ed il capo militare. A questo scopo la leggenda narra che il padre desiderava che il principe non conoscesse la vecchiaia e la sofferenza e che per questo motivo egli fosse costantemente circondato da giovani, servitori e cortigiane.
Ma la sensibilità e lo spirito di ricerca del giovane principe lo portarono a varcare la soglia del suo rifugio dorato e ad incontrare, come narra la leggenda, un vecchio, un malato ed un cadavere.
Sconvolto da questa rivelazione della realtà della vita, egli arriverà a dichiarare più tardi “Sebbene fossi cresciuto nella ricchezza, ero molto sensibile per natura e mi domandai come mai, quando tutti gli uomini sono destinati a subire la vecchiaia, la malattia e la morte e nessuno può sfuggirvi, pure guardano alla vecchiaia, alla malattia e alla morte degli altri con timore, disgusto e disdegno. Non è giusto pensai, e in quel momento tutta la gioia della giovinezza, e la fierezza e il coraggio che sentivo in me per la mia buona salute mi abbandonarono”.
Consapevole dell’ineluttabilità delle quattro sofferenze di nascita, vecchiaia, malattia e morte, egli decise di abbandonare la reggia del padre per ricercare la via per la salvezza, iniziando un cammino entusiasmante per tutta l’umanità, un cammino che continua ancora oggi.

La vita del Budda
La parola “Budda” o “Buddha” significa “illuminato”. Anche se più tardi questa parola fu associata ad una entità quasi divina, nel suo significato profondo si riferisce ad un essere umano, un “comune mortale”. Ed è questo che fu Shakyamuni, un maestro del grande potenziale dell’umanità.
Per prima cosa Shakyamuni, allontanatosi dal regno paterno, ricercò un maestro da cui apprendere la strada per l’illuminazione. All’epoca vi era una forte tradizione ascetica, che godeva di una grande reputazione derivante dalla cultura brahmanica dell’India, la quale prevedeva 4 fasi nella vita di un uomo. Di queste le ultime due comportavano l’abbandono della vita secolare e la ricerca spirituale tramite l’ascetismo.
Dopo aver praticato con due maestri Yoga e condotto varie pratiche ascetiche, Shakyamuni si rese conto che queste non portavano allo scopo che si era prefisso.
Infatti lo scopo di queste pratiche, e ci riferiamo ai migliori maestri, era al più quello di fare il vuoto nella mente ed ottenere il distacco dai desideri, fino ad annullare la vita stessa. Shakyamuni abbandonò la casa paterna per cercare un qualche principio di verità, qualcosa che gli permettesse di superare le sofferenze fondamentali dell’esistenza, ed ottenere la felicità.
L’ascetismo portava all’isolamento dell’individuo, teso alla ricerca della propria salvezza personale, e quindi non poteva fornire una soluzione per la salvezza degli altri.
Come vedremo in seguito, il Buddismo contempla anche l’autodisciplina, ma questa non è fine a se stessa. Il pensiero buddista può essere meglio riassunto nel concetto di “Via di Mezzo”: “vi è una via di mezzo, o monaci, scoperta dal Thatagata, che evita questi due estremi. Essa apporta la chiara visione e comprensione, conduce alla saggezza ed alla tranquillità, al risveglio, all’illuminazione .. “ .
Questo è il principio che indica che la mente ed il corpo sono inseparabili.
Abbandonate dunque le pratiche ascetiche si concentrò in meditazione, proponendosi di non recedere fino a che non avesse raggiunto l’illuminazione. Sempre secondo la leggenda, giunto allo stremo delle forze, il demone Mara gli apparve, cercando in tutti i modi di impedirgli di raggiungere la meta.
Questo demone altri non era che la personificazione del suo male interiore e dell’oscurità innata di tutta l’umanità. Mara dicevamo tentò in tutti i modi di dissuaderlo, suggerendo dapprima che dovesse riposarsi per ottenere il suo scopo, poi tentando di spaventarlo.
Fu una lotta interiore senza tregua, alla fine della quale Shakyamuni risultò vincitore. In realtà quello che aveva sconfitto era la natura oscurata presente nella sua stessa vita. Sconfiggendo Mara Shakyamuni poté infine ottenere l’illuminazione.

L’illuminazione
Ma che cos’era questa illuminazione cui giunse Shakyamuni? Credo che qualche parola debba essere spesa su un argomento tanto delicato quanto vasto come questo.
Preciso innanzi tutto che se per comprendere pienamente un’esperienza come quella di Shakyamuni bisognerebbe essere noi stessi dei Budda, l’illuminazione non è qualcosa di distaccato ed estraneo alla comune esistenza umana. Le scritture ne danno inoltre versioni diverse e così rischiamo di confonderci ancora di più.
Il termine con cui viene definita l’illuminazione di Shakyamuni è anuttara-samyak-sambodhi, che significa “saggezza insuperata e perfetta”, cioè quella saggezza che arriva a percepire la vera natura dei molteplici fenomeni dell’esistenza.
Si tratta quindi di una comprensione chiara della realtà della vita e della sua essenza, comprensione in grado di cambiare il nostro modo di essere e di agire.
Per trasmettere questa visione della vita così intima è forse utile ripercorrere le tappe dell’ultima notte di veglia in cui, seduto sotto l’albero della bodhi, Shakyamuni raggiunse il suo scopo, così come la raccontano i sutra Agama.
Si narra che Shakyamuni arrivò alla comprensione della realtà ultima in tre tappe.
Durante la prima veglia, dopo aver superato tutti gli stadi di una profonda meditazione, la sua mente divenne “limpida, pura incontaminata, agile e attenta .. Durante questo stadio egli concentrò la mente nel ricordo di tutte le sue precedenti esistenze. Rammentò la prima, la seconda, terza vita e così via attraverso incommensurabili eoni di tempo e innumerevoli formazioni e distruzioni dell’universo …. Non si trattò di qualcosa che gli giunse come un’intuizione .. Era un vero e proprio ricordo, perfettamente chiaro. …. Il brano si conclude con le parole: l’ignoranza perì e fece posto alla chiaroveggenza. … L’uomo non percepisce la natura della sua attuale esistenza perché accecato dall’ignoranza e dall’impurità”. Ciò in sostanza significa che finché l’uomo vive nell’ignoranza continuerà a rinascere nelle condizioni basse dell’esistenza. Questo concetto lo vedremo meglio in seguito.
Durante la seconda veglia Shakyamuni percepì il flusso delle vite delle persone attraverso nascita e morte, cioè la legge del karman. “Acquisii il supremo occhio celeste e vidi il mondo intero come in uno specchio immacolato. Vidi la morte e la rinascita di tutte le creature a seconda che i loro atti fossero stati bassi o elevati … “. Vedendo questa realtà con un “occhio aperto naturalmente” si comprende la direzione della nostra esistenza.
Sulla terza ed ultima veglia, nella quale Shakyamuni completò il processo di illuminazione, ci sono versioni discordi degli studiosi. Da un punto di vista razionale si può affermare che si illuminò alla legge di causalità. In alcune scritture si parla della teoria dei dodici anelli della causalità, tipica del buddismo Theravada, però da un punto di vista che tenga conto della sua storia si capisce come la sua illuminazione andasse al di là di questo concetto.
In tutta la sua vita di predicatore Shakyamuni visse tra la gente, esponendo la Legge o Dharma a cui si era illuminato in accordo con la loro capacità di comprensione. Questo dette origine ad un insieme di insegnamenti che mettono in evidenza aspetti particolari della sua visione della vita. Il concetto di causalità è noto in sanscrito come pratitya-samutpada, che significa letteralmente “origine dipendente” o “produzione condizionata”.
Tutti gli esseri ed i fenomeni dell’universo esistono come risultato di cause. Poiché tutto nell’universo è soggetto a questa legge, niente può esistere indipendentemente dal altre cose o nascere per virtù propria. Questa Legge è anche chiamata “fondamentale interdipendenza di tutte le cose”, sia nello spazio sia nel tempo.
Vorrei concludere questa sezione, che rischia di diventare troppo lunga, con questa poetica descrizione di Ikeda:
“Se guardiamo con occhi sereni al grande universo che ci circonda, scopriamo che ciò che a prima vista appare come un immenso silenzio è in realtà un pulsare continuo di creazione e mutamento. Lo stesso si può dire dell’uomo: invecchia, muore, rinasce e muore nuovamente. Nulla, sia nella natura sia nella società umana, conosce un momento di pausa, di riposo. Tutte le cose dell’universo sono in flusso costante, si levano e ricadono, appaiono e scompaiono, prigioniere di un incessante ciclo di mutamento condizionato …. Tale è la natura della realtà umana. Sono convinto che in un certo senso l’illuminazione di Shakyamuni sia stato un grido di meraviglia di fronte a questa misteriosa entità che chiamiamo vita, con la sua miriade di manifestazioni che si collegano e dipendono l’una dall’altra attraverso gli anelli di causa ed effetto.
Ma l’uomo comune non si rende conto di questa verità e ha l’illusoria convinzione di esistere indipendentemente dai suoi simili. Questa illusione lo allontana dalla legge della vita, che è la verità ultima, e lo rende prigioniero del desiderio, dal quale poi discendono la sofferenza, la tragedia e la sfortuna. Come si è sciocchi e da compatire! Ci si lascia fuorviare dall’ignoranza che è un’espressione del male e non si ha altra via di uscita se non affrontare questo demone che si annida nello spirito dell’uomo.”

La salvezza di tutti gli esseri
Una volta ottenuta la comprensione dell’essenza della vita, Shakyamuni si pose il quesito se dovesse condividere la sua esperienza con gli altri. Questo succede a molti uomini che si avviano verso una ricerca pura e disinteressata. Una volta venuti in possesso di una legge fondamentale o di un principio di vita si rendono conto della loro missione, e decidono di proclamarlo agli altri. Superando ancora una volta tutti i dubbi e le paure decise di predicare la Legge a cui si era illuminato. Si recò pertanto dai suoi ex maestri di ascetismo, che divennero i suoi primi discepoli.
Come dicevo, comprendendo che trasmettere la sua esperienza sarebbe stato molto difficile, Shakyamuni iniziò ad esporre i suoi insegnamenti basandosi sulla capacità dei suoi interlocutori, preparando i suoi discepoli a ricevere il suo insegnamento a livelli sempre più profondi.
Nel corso degli anni sempre più persone si unirono a quest’uomo eccezionale, fino a fondare un vero e proprio ordine, che si manteneva grazie alle offerte dei credenti laici. In questo modo predicò per più di quaranta anni, vivendo tra le sofferenze della gente comune. Spesso si ha una visione del Budda come un essere trascendente distaccato dalla realtà quotidiana, ma questo non era certamente l’uomo Shakyamuni.
La sua dedizione nello stabilire una solida comunità di credenti e nello spiegare l’essenza della filosofia buddista ai suoi discepoli non conobbe soste. Ormai ottantenne continuava a spostarsi senza tregua e, giunto ormai ai suoi ultimi giorni, cercò di preparare i suoi discepoli a diventare indipendenti nella ricerca della loro felicità. Infatti nonostante l’età i discepoli si sentivano al sicuro sotto la sua ala protettrice. ‘Al momento della morte lasciò queste istruzioni relative all’ordine ed alla condotta dei monaci “Perciò siate voi stessi la vostra isola. Prendete il vostro io come rifugio. Non cercate rifugio in altro che in voi stessi. Attenetevi fermamente alla Legge e fate che essa sia la vostra isola e non cercate rifugio in altri che in voi stessi”’.
L’individuo deve arrivare nel proprio intimo a una salda comprensione, limpida e luminosa come uno specchio , e proseguire nella sua strada con questa comprensione come unica compagna.
Nessuna religione dà maggiore importanza del Buddismo alla dignità dell’individuo ed alla sua unicità. Mentre altre religioni riconoscono l’assoluto come qualcosa che esiste fuori dell’io, nel buddismo ciò non avviene’.

Il canone
Alla morte di Shakyamuni i monaci dell’ordine si riunirono in concilio per compilare i suoi insegnamenti trasmessi oralmente. Nacquero così i sutra e l’Abhidharma, l’insieme delle regole di condotta per i monaci. Tutte le scritture composte dopo la sua morte costituiscono il Canone buddista.
Nel primo periodo furono messi in particolare evidenza gli aspetti legati alla disciplina monastica ed alle pratiche ascetiche. Sempre più l’ordine si ritirò in vari monasteri donati da ricchi credenti laici. L’ideale di perfezione a cui si ispiravano dell’arhat, o santo, una meta raggiungibile attraverso la pratica come shomon o shravaka, il discepolo che ascolta l’insegnamento e segue con diligenza le quattro Nobili Verità e L’Ottuplice sentiero. Da questi monaci il Budda era visto come un essere che era vissuto ad un livello troppo elevato per le persone comuni, quindi i praticanti buddisti non nutrivano speranza di eguagliarlo. Ci si “accontentava” pertanto della condizione di arhat o “essere perfetto”. Anche questo stadio però è considerato difficile da raggiungere, ed anche dedicandosi con grande zelo alle pratiche religiose, le possibilità di ottenere l’autentica santità nel corso di una sola vita sono alquanto scarse. Infatti a causa del desiderio l’uomo rischia in ogni momento di soccombere.
“I membri dell’ordine buddista circondarono quindi la propria esistenza di un gran numero di norme e precetti concentrandosi soltanto sulla disciplina monastica. Lo scopo originale del buddismo, condurre le genti alla salvezza, venne del tutto negletto”. Inoltre scoppiavano controversie su chi avesse veramente raggiunto la condizione di arhat e sul modo e sulle prove necessarie per determinare la santità di una persona.

Hynayana e Mahayana
In contrapposizione a quello che avveniva tra i buddisti che si erano ritirati nei monasteri, un altro movimento prese vita e si sviluppò, un movimento collegato alla vita di tutti i giorni, e che si potrebbe impropriamente definire laico. In accordo con l’esempio dato dal fondatore durante la sua vita, alcuni praticanti ritenevano che la vera strada non fosse scollegata dalla vita quotidiana e dalla società nel suo complesso. Questo avveniva circa un secolo dopo la morte di Shakyamuni, una sorta di “riforma” all’interno dell’ordine buddista. Per evidenziare la differenza che li divideva dai “tradizionalisti” dell’ordine, dettero al loro buddismo l’appellativo spregiativo di Hynayana, o “piccolo veicolo”. Al contrario definirono il nuovo movimento Mahayana, o “grande veicolo”.
All’ideale di “ascoltatore della voce” o shravaka viene sostituito quello di bodhisattva, cioè di illuminato che si dedica alla salvezza degli altri. I seguaci del Mahayana annunciarono che non volevano più preoccuparsi della condizione di arhat ma di concentrarsi sull’ottenimento della condizione di Budda. Dicevano: “Shakyamuni non è stato il solo budda. Purché un uomo, ogni uomo, abbia compiuto le pratiche richieste a un bodhisattva dovrebbe poterla raggiungere”.
Le pratiche che avrebbero condotto un bodhisattva alla condizione di budda vengono di solito definite come le sei paramita, o atti in grado di portare all’illuminazione: dono, osservanza dei precetti, pazienza, energia, meditazione ed intuizione. La più importante è il dono, ossia la donazione della legge (o dharma) alla gente sofferente. Il bodhisattva va in effetti tra la gente a predicare la verità del buddismo usando vari metodi, a seconda delle circostanze.
“Il punto fondamentale è che il bodhisattva non si sforza di salvare solo se stesso, ma anzi cerca la via del Budda per avvantaggiare tutti gli esseri”.
Un altro punto di differenziazione è che il Mahayana si propone di cambiare la società nel suo complesso. L’approccio del bodhisattva è attivo e tende ad imporre all’esistenza le proprie condizioni.
Nel corso dei millenni sono apparsi altri grandi filosofi buddisti che hanno approfondito la comprensione della vita. Una disamina accurata di tutti questi importanti contributi e scuole di pensiero esulta per il momento dagli scopi di questo scritto.
Vorrei solo citare il filosofo indiano Nagarjuna, ideatore della teoria della dottrina mediana e del vuoto, il monaco cinese Chi’i Tien Tai (circa 500 d.c.), a cui si deve la teoria di ichinen sanzen, estratta dal Sutra del Loto, la più alta scrittura buddista in cui è racchiusa l’essenza della filosofia di Shakyamuni, ed il monaco giapponese Nichiren Daishonin (1222-1281), che ne rivoluzionò l’interpretazione e la pratica.
Su questi aspetti torneremo successivamente.

L’ultimo giorno
Chiudo questa panoramica sulla nascita del buddismo con un concetto che ritengo importante per capirne la dinamicità e la sua forte spinta riformatrice, in accordo nello spirito con la vita e le azioni del fondatore. Per il buddismo tutto è in divenire. Da questo punto di vista anche l’insegnamento, la Legge a cui un budda si è illuminato ha una durata, cioè è valida per un certo periodo di tempo. Intendiamoci, la legge dell’esistenza non cambia, ma la forma che assume e soprattutto la capacità che ha di condurre le persone all’illuminazione dipende dall’epoca. Per fare un esempio ai nostri giorni nel mondo occidentale è molto difficile poter vivere ritirandosi dal mondo, o perlomeno complicato. Inoltre si rischia di non poter trasmettere il nostro messaggio agli altri. La tradizione divide la durata della Legge del budda Shakyamuni in tre periodi, i cosiddetti primo, medio ed ultimo giorno della Legge, durante i quali il beneficio dell’insegnamento di Shakyamuni perde gradualmente la sua efficacia. Adesso siamo ormai nel terzo periodo, ed anche se l’essenza dell’illuminazione di Shakyamuni rimane valida e vitale ancor oggi, questa è un’epoca in cui una nuova espressione della Legge buddista si accordi ai bisogni dell’umanità.

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