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Chiara Inesia


domenica 28 dicembre 2008

CHI CONOSCE IL SUO LIMITE NON TEME IL DESTINO

Socrate e Gesù di fronte alla morte

Socrate vede nella morte "la grande amica", i cristiani invece "la grande nemica di Dio". Per questo i cristiani non sanno morire


Risponde Umberto Galimberti

Nel corso del master in consulenza filosofica a Venezia, lei ha sostenuto che l'antico Greco non avrebbe avuto bisogno di un ipotetico consulente filosofico intorno alla questione sul senso della vita e sull'accettazione della morte, in quanto non si sarebbe mai posto tale domanda.
Vivendo nel paradigma culturale della polis, l'uomo greco si percepiva come parte di una comunità, in ultima istanza di una physys in cui il singolo individuo non aveva senso, essendo il senso dato dal riconoscersi parte del tutto. La mortalità dell'io era quindi serenamente accettata come necessaria alla vita stessa, che deve far morire le proprie determinazioni per poter continuare a perpetuarsi.
Ebbene, le pongo la domanda: se il paradigma culturale dell'Occidente è invece la visione giudaico-cristiana dell'io come compimento ultimo della natura - visione che ha rimosso la dimensione tragica dell'uomo eliminando la morte tramite la resurrezione -, come può allora l'uomo occidentale, oggi, accettare di essere mortale e in sé privo di senso? Non lo intendo tanto sul piano razionale, quanto sul piano emotivo: l'angoscia di morte che contraddistingue la nostra società, che ha un simbolo di morte (la croce) come sua massima espressione, come può essere risolta se l'uomo non è altro che un morente come ogni altra cosa.
Cristiano Chiusso

E infatti i cristiani non sanno morire. Basti in proposito un confronto tra la morte di Socrate e la morte di Gesù. Dal luogo in cui era stato rinchiuso in attesa della condanna, Socrate è invitato dai discepoli a fuggire. Ma la sua risposta è perentoria: "Vi ho insegnato per tutta la vita a ubbidire alle leggi e voi mi invitate a trasgredirle al termine della mia esistenza. Quello che avevo da insegnarvi ve l'ho comunicato. Il mio ciclo si è concluso".
Non c'è traccia d'angoscia, senso di disperazione, malinconia per una vita giunta alla fine, c'è solo coerenza tra un insegnamento e una vita. Anche la drammaticità del momento viene asservita alle esigenze dell'insegnamento per renderlo più persuasivo, più efficace. E se il momento è vigilia di morte, lo si affronti in tutta dignità.
"Ma infine, Socrate, dicci in quale modo dobbiamo seppellirti?", incalzano i discepoli. "Come volete", rispose. E, ridendo tranquillamente, proseguì: "O amici, io non riesco a convincere Critone che il vero Socrate è quello che ora qui discute con voi e non quello che, da qui a poco, egli vedrà morto" (Fedone 115 e). I discepoli lo pregano di attendere, come altri avevano fatto, il tramonto del sole. Ma Socrate vuole evitare di rendersi ridicolo aggrappandosi alla vita quando ormai non ce n'è più. Beve d'un fiato il veleno "senza temere, senza alterare il colore né l'espressione del viso, ma, guardando com'era solito i discepoli con i suoi occhi da toro, disse: 'Che ne pensi? Con questa bevanda è lecito fare libagione a qualcuno o no?'" (Fedone 117 b). Indi riprese a passeggiare finché non sentì le gambe pesanti, allora si sdraiò, e quando le parti del corpo cominciarono a farsi fredde disse: "'Critone, dobbiamo un gallo ad Esculapio; dateglielo e non dimenticatevene'. 'Sarà fatto', rispose Critone, 'ma vedi se hai qualcos'altro da dire'. A questa domanda Socrate non rispose più nulla" (Fedone 118 a).
Se ora passiamo dal Fedone al Vangelo di Marco che ci descrive la morte di Gesù, leggiamo che i discepoli che lo avevano accompagnato nell'orto del Getsemani s'erano addormentati, mentre Gesù cominciava "a tremare e a esser preso d'angoscia", tanto che disse loro: "L'anima mia è triste fino alla morte, restate qui e vigilate" (Mc., 14, 34).
A differenza di Socrate, Gesù ha paura, non degli uomini che lo uccideranno, né dei dolori che precederanno la morte, Gesù ha paura della morte in sé, e perciò trema davvero dinanzi alla "grande nemica di Dio" e non ha nulla della serenità di Socrate che con calma va incontro alla "grande amica".
"Abba! Padre, tutto ti è possibile, allontana da me questo calice" (Mc., 14, 36). È il calice della morte con cui non è possibile "fare libagioni". E perciò l'urlo dalla croce: "Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato? (Eloì, Eloì, lamà sabactani?)" (Mc., 15, 34).
Incapace di sostenere questa solitudine, nel Getsemani Gesù non cerca solo la presenza di Dio, ma anche quella dei discepoli. Continuamente interrompe la sua preghiera per raggiungerli e vederli nel sonno: "Non potete vegliare un'ora con me?" (Mc., 14, 37). E poi sconsolato: "Dormite pure e riposatevi. L'ora è venuta, ecco, il figlio dell'uomo sta per essere consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi, andiamo. Colui che mi tradisce è vicino" (Mc., 14, 42).
Poi la scena della morte. Con calma sovrana Socrate beve la cicuta, mentre Gesù emette un grido inarticolato (Mc., 15, 37), una lacerazione. Non è più la morte amica dell'anima, è la morte in tutto il suo orrore. Qui si apre l'abisso tra il pensiero greco da un lato e la concezione cristiana dall'altro. Noi viviamo nell'ambito della tradizione giudaico-cristiana e non sappiamo affrontare la morte se non affidandoci a speranze ultraterrene. Abbiamo un concetto molto alto di noi, meritevoli di immortalità. Ma questa credenza è rivelatrice di una verità o di uno spropositato amore di sé? Perché, nel secondo caso, forse varrebbe la pena di consegnarci con largo anticipo al nostro limite, seguendo la saggezza greca là dove insegna:
"Chi conosce il suo limite non teme il destino".

da http://dweb.repubblica.it/dweb/2008/02/16/rubriche/lettere/338mas585338.html

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