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Chiara Inesia


martedì 15 aprile 2008

ADRIANA. ANALISI “DEL” E ANALISI “NEL” QUI E ORA IN SEDUTA

di Romano Biancoli

BREVE PREMESSA TEORICA

Intendo per qui e ora in seduta (Biancoli, 2006) un’esperienza di situazione in atto che include intelletto, affetto, emozioni. Il suo fondamento è il seguente: in questo momento, ogni altrove lo posso sperimentare solo qui, e ogni passato e ogni futuro esistono solo come pensiero, fantasia e sentimento presente. In senso ontologico, ogni altro tempo e ogni altro luogo possono essere pensati, rappresentati e sentiti solo ora, qui. Ne viene una definizione del là e allora per esclusione rispetto alla definizione del qui e ora. Il senso del là e allora è quello di tutte le esperienze, persone, situazioni, accadimenti, sogni, fantasie del passato, in altre realtà che non sono quella dell’ analista e dell’analizzando in seduta. E’ un non qui e non ora che, in questa veduta, esiste solo su un piano alienato, arresto reificante di processi in atto.
Questa prospettiva è diversa da quella proposta da Daniel Stern (2004), a fondamento fenomenologico. Si può farla partire dalle proposizioni di Karl Marx (1867, I, p. 253) sul rapporto tra “lavoro vivo” e “lavoro morto” e vederla fiorire in Erich Fromm (1976) che elabora la “modalità dell’essere” e la “modalità dell’avere”, con rispondenze nelle categorie “pensiero pensante” e “pensiero pensato” di Giovanni Gentile (1916).
L’analisi “del” qui-e-ora è l’analisi di questa situazione in cui ora ci troviamo. Riguarda la seduta e la relazione analitica che vi si manifesta. Il caso specifico della coppia analitica che lavora su se stessa rientra nell'analisi "del" qui e ora.
E’ invece un'operazione di altra natura l’analisi “nel”, cioè il riportare qualunque contenuto, anche onirico, al qui e ora. Secondo me, molta della competenza dell'analista sta nel restituire al qui e ora i là e allora che si affollano nella mente di entrambi. Credo che questa attitudine a pensarsi, sentirsi, sperimentarsi “nel” qui e ora mentre si analizza un là e allora appartenga allo specifico del lavoro dell'analista. Il là esiste solo come rappresentazione nel qui e anche l'allora è solo una rappresentazione nell’ ora. Nel qui e ora si raccoglie il tutto funzionante dell'analizzando, dell'analista e del loro rapporto.




ADRIANA SI PRESENTA

Quando viene da me Adriana ha 27 anni. Avvenente, elegante, un filo di provocazione nel suo sguardo. Vuole piacermi e la seduzione arriva a movimenti di gonna sulla poltrona che scoprono vistosamente le gambe. E' laureata in Lettere moderne e insegna saltuariamente come supplente. Convive da un anno con Gianni, di 38 anni, ingegnere. Cerca aiuto perché si sente ambivalente: senza di lui ritiene di non poter vivere, ma a volte lo odia visceralmente tanto da improvvisargli scenate violente, per futili motivi. Inoltre, mentre prima della convivenza era molto innamorata di lui e lo desiderava, oggi lo rifiuta fisicamente. Ciò le riattiva un’angoscia di cui ha sempre sofferto. Sembra che scinda l’oggetto desessualizzandolo, come scrive Christopher Bollas (2000). Sente che vivere con Gianni sia tanto doloroso quanto ineluttabile. Da quando convivono lo ha già tradito tre volte, con ragazzi più giovani di lei.
Si esprime con parole appropriate e ricercate però enfatiche, evocatrici di scenari fantasiosi, drammatizzanti. Ci accordiamo per due sedute alla settimana.
Soffre di vari disturbi fisici, dolori per lo più vaganti, talora persistenti, specialmente all’intestino, per colon spastico. “Il corpo dell’isterica … (è) … un corpo doloroso … (che) deve soffrire per esistere” (Green, 1997). Usa il termine “complesso edipico”, pensando di essere innamorata di suo padre. Ne parla in termini idealizzati, lo presenta come un raffinato e squisito uomo di lettere, di sterminata cultura. Ama il suo volto amaro, sofferente. Nobilita i suoi tratti egocentrici e scusa le sue irresponsabilità.
La madre viene da una famiglia benestante, insegna materie artistiche e sa amministrare il patrimonio ereditato. E’ bella ed estroversa, con tratti amabili, se non fosse per quel piglio di comando che Adriana non sopporta. In casa decide tutto la mamma, appoggiata da Amelia, figlia preferita, di sei anni minore. Il papà si chiude a riccio e da quando è in pensione passa le giornate sdraiato sul letto a leggere. L’unico suo possesso è una biblioteca di 10.000 volumi, molti dei quali con valore antiquario.
La madre non la guarda quasi mai e spesso le parla con voce dura. Adriana ne è ferita, da sempre. La odia intensamente. La sera prima di addormentarsi si abbandona ad un sentire malevolo, traendone un piacere pastoso. Pensa con rancore alle persone che non sono state buone con lei. Solo quando ha paura, paura del buio, paura di fare brutti sogni, Adriana non si concede a sentimenti ostili. Il rancore compiaciuto e insistito le richiede un certo senso di sicurezza, in un suo nido narcisistico riposto.
Ronald Fairbairn (1954, p. 52) dice che “l’isterico coltiva un senso tremendo di risentimento”. Anche Masud Khan (1974) dedica un lavoro a questo argomento.
In un sogno ricorrente durante l’adolescenza vede “tanti uccelli. I pazzi possono comandare quegli uccelli. Anch’io posso comandare quegli uccelli. Li posso indirizzare contro delle persone. Posso farmi largo con gli uccelli che aggrediscono le persone che mi ostacolano”. André Green (1997) nota che nei casi limite vi è “il desiderio di possedere un organo aggressivo”.
Nella terza seduta Adriana mi appare molto teatrale. Penso a James Hillman (1972, pp. 262-268), che tocca il rapporto tra isterica e strega entro cui abita il pregiudizio antico di riservare alle donne l’attitudine isterica, per cui un uomo che diagnostica una donna come isterica pone il tema della sua propria misoginia. Mi sto occupando del mio controtransfert e mi chiedo se sono misogino o piuttosto se, attraverso il ricordo del passo di Hillman, sto razionalizzando per sottrarmi alla formulazione di una diagnosi.



IL QUI E ORA DELLA SEDUTA E IL LA’ E ALLORA DELLA VITA DI ADRIANA

Via via che le sedute si susseguono, sento che Adriana cerca di sedurmi (Lionells, 1995) lungo vie sdoppiate. Scopre improvvisamente parti delle gambe e dei seni, in moti fulminei, e si ricopre, con uno sguardo allusivo a non si sa cosa. Sembra dire: vedi questo?, ebbene, non immagini quanto ci sia d’altro. Eldoradi o inferni, ma non del corpo, stati della mente. Come se io, seguendo le linee del suo seno in un rapido chinarsi di Adriana ridente, dovessi cogliere un alcunché di incorporeo, misterioso. Appartiene all’analisi “del” qui e ora chiarire questo gioco seduttivo che mi fa sentire il sottile fascino di una promessa di profondità psichica formulata col linguaggio del corpo.
L’arcano in parte si svela un giorno in cui giunge arrabbiata con Gianni. Ha litigato con lui pretestuosamente, al fine di arrivare da me alterata. Vuol farmi sentire non quanto lo odia ma come lo odia. Dice poche parole, pretende che io indovini e che resti contagiato. Sembra che voglia iniziarmi a uno stile di odio, l’odio come piacere, l’odio erotizzato e voluttuoso, una sorta di fornicazione affettiva da coltivare in segreto, per ore e ore. Dovrei avvezzarmi alla sua droga interna, stare nel clima e seguire il viaggio del suo sguardo torvo. Il suo viso spesso muta repentinamente espressione, dal sorriso solare al broncio che rimanda alla sua oralità disperata (Marmor, 1956), alla rabbia. Me la porta qui la sua arte di odiare, ma qui, nel confronto con me, essa perde fascino, e lei lo sente, nemmeno occorre che parli di masochismo, ha capito, china il capo e lo scuote piano piano e poi lo alza di scatto, s’impenna e mi dice che mai e poi mai ci rinuncerebbe. Ecco cosa diventa il là e allora dell’odio “nel” qui e ora della seduta, in un vissuto a due: una povera cosa, una masturbazione affettiva coatta.
Harry Guntrip (1968, p. 17) dice che “l’odio è amore inacidito”. Fin dalla prima infanzia, in Adriana si è imposta un’esperienza di rivolgimento dell’odio in una sorta di piacere, come un addolcire l’amore inacidito in agrodolce gradevole, base di ogni futuro masochismo nella sequenza: cercare di farsi ferire, odiare, goderne. Ma poi, man mano che gli anni passano, l’angoscia tiene sempre più il campo. L’odio, spesso, funziona come un ansiolitico.



I LA’ E ALLORA DI UN SOGNO PORTATI “NEL” QUI E ORA

Solo alla 41^ seduta mi racconta il suo primo sogno da quando è iniziata l’analisi:

“L’urlo di una donna di mezza età, sembra una zingara, col fazzoletto legato dietro la nuca. E’ affacciata ad un alto dirupo. Sul suo volto il raccapriccio e il terrore per un evento maledetto o sacrilego, ma non inconsueto nel sogno, come fosse già accaduto: ha buttato giù la sua bambina che sta rotolando lungo la parete scoscesa della roccia. Urtandone le asperità taglienti il corpo va a pezzi. Dovrebbe però ricomporsi magicamente prima di toccare il fondo del burrone”.

Secondo Jorge Silva-Garcia (1982), il primo sogno che un paziente porta in analisi è il suo biglietto da visita inconscio, il suo “ritratto parlato”, da esaminare in profondità e da tenere come punto fermo nel prosieguo del lavoro analitico.
Adriana è molto allarmata da questo sogno, che è un vero colpo di scena tra noi due. Sta rannicchiata sulla poltrona, spaurita. Ciò che la sgomenta è il senso di verità che le viene dal sogno e soprattutto il perturbante senso di dimestichezza che lo percorre, come se in lei vi fosse una regione sommersa dove avvengono abitualmente cose simili, cose che stanno accadendo anche in questo momento con la mia partecipazione. L’arcaico e il magico giungono qui e respirano con noi due, presenti ed emotivamente palpabili ed inquietanti nel loro darsi ora.
Il racconto di un sogno è sempre relazionale (Biancoli, 2003), unico, tanto che Adriana potrebbe raccontarlo a cento altre persone, ma ogni volta, inevitabilmente, lo racconterebbe in modo diverso, e se ne leggesse il testo manifesto sarebbe la sua voce a rendere irripetibile ogni lettura. Il racconto del suo sogno in seduta implica me, che col mio modo di ascoltare intimamente reattivo lo costruisco con lei non meno di quanto lei contribuisca, afferrando le mia attenzione, al lavorio di ascolto che si produce in me. Cerca i miei occhi mentre racconta, e io seguo la deriva del suo sguardo, e se c’è terapia in questa seduta forse viene fluidamente indotta dal guardarci mentre lei parla e anche dopo.
Lo spezzettamento del corpo della bambina è un simbolo forte di scissione. Una madre zingara e strega, urlando e come posseduta da un demone furioso, sfracella la sua bambina fidando nella magia che poi si ricomponga sana e salva. C’è un riferimento mitologico al tema. Secondo la lezione di Károly Kerényi (1951), Demetra, nel suo aspetto di donna vecchia che ha subito oltraggio, si presenta al re Celeo e alla regina Metanira che la accolgono nella loro casa e le affidano il loro bambino affinché lo accudisca e lo educhi. Tutte le notti Demetra pone il bambino nel fuoco e lo fa ardere come un tizzone, al fine di renderlo immortale. Dunque, nel sogno c’è anche un simbolo di salvezza, però introdotto dalla stessa figura di zingara sacrilega e strega che il mito offre ribaltata e divinizzata. Le parlo del mito per contribuire alla componente di fede che c’è nel sogno, fede, sia pure magica, nella ricomposizione e nella salvezza.
Il primo sogno può già suggerire qualcosa dell’incipiente transfert (Silva-Garcia,1988). Adriana di tanto in tanto afferma di vedermi come un padre saggio e che questo è il suo transfert, stando a quanto ha letto di psicoanalisi. Col suo sogno sembra dirmi ben altro: mi stai facendo a pezzi con la tua analisi, che almeno sia vero che prima della fine mi ricomponi.



DISSOCIAZIONI

Il sogno è terrifico e rivela la consuetudine di Adriana coll’affetto della paura, fin da bambina, anzi, soprattutto da bambina, paura degli spiriti, paura del buio, paura del diavolo, paura delle streghe e anche delle zingare, paure senza oggetto. Poi, via via, queste paure restringono la loro area manifesta, ma non la loro intensità, e forse in parte si versano nell’angoscia di separazione, spesso insopportabile senza benzodiazepine. Angoscia che culmina nell’esperienza di lasciare la casa dei genitori per andare a vivere con Gianni.
Le accade di dimenticarsi che soffre di paure, e quando ne viene assalita un “ah!, già, è vero …” le rammenta il lato nero che accompagna la sua esistenza, il terrore dissociato.
Adriana racconta poi che il nonno materno muore improvvisamente un mese prima che lei nasca. La mamma, legatissima al proprio padre, si dispera al punto che è necessario ricoverarla. La gravidanza stessa è in pericolo. Quando Adriana nasce, la mamma è in pieno sconforto e inabile ad accudire la sua bambina, tanto da ricorrere all’aiuto quotidiano della nonna, in lutto pure lei. Si può ipotizzare il caso D) della Strange Situation, il modello disorganizzato, basato su “una paura senza sbocco”: la bambina dovrebbe avvicinarsi alla madre per ricevere conforto e tenerezza, ma se lo fa viene spaventata (Parkes, Stevenson-Hinde, Marris, 1991; Fonagy, 2001; Liotti, 2005). Gli autori che si sono occupati di queste ricerche indicano come conseguenza della modalità D) la dissociazione psichica.
Gli atteggiamenti bruschi della mamma, le sgridate, il farle male mentre la pettina diffondono un’aura di rancore nell’animo della bambina, come una cortina fumogena che nasconde il regno del terrore. Pur se sgarbato, l’accudimento materno è preferibile al rifiuto e rassicura quanto basta perché Adriana si ritiri nel suo sentire astioso, si prenda il lusso di odiare, dissociando i terrori notturni, eco forse del volto materno durante i primi mesi di vita. La madre stessa favorisce la dissociazione, nascondendo, dietro la sua figura di impaziente accuditrice dalla voce aspra, quella tragica di madre rifiutante suo malgrado, che affida la sua bambina a una buona sorte magicamente auspicata. Così i vissuti di Adriana si dividono, quando odia non sente paura, e quando ha paura l’ultima cosa cui può pensare è l’odio. Inoltre, fortunatamente, la mamma è anche amabile e parla alla sua bambina con voce soave; c’è il papà che è buono e gioca e racconta fiabe e recita poesie. Adriana gioisce, gioca, corre e si dimentica del resto. E’ diviso l’oggetto esterno, è diviso l’oggetto interno ed è diviso il Sé di Adriana. E’ fissata al padre come difesa dal rifiuto disorientante della madre.
Via via esce dell’altro. La bambina, quando è triste o si sente in ansia, si mette a correre e il moto le facilita fantasie gradevoli ed euforizzanti. Fantastica spesso, forse tutti i giorni. Diventa un modo di essere, anche senza correre, favorito dalla musica, ma anche senza musica, con la testa altrove, e non solo la testa ma pure le emozioni e talora addirittura la partecipazione somatica, con alterazione del respiro e del ritmo cardiaco, con sudorazione, specialmente se nelle fantasie vi sono moti aggressivi. Questo accade anche oggi. Di più: a partire dall’adolescenza, quando attraversa una fase in cui non si piace, fantastica di essere un’altra persona e si immagina una vita parallela, e poi di essere un’altra ancora con altre vicissitudini, crea e coltiva così vari personaggi in contemporanea, delle fiction mentali a puntate, degli avatar, che non hanno rapporti gli uni con gli altri. Adriana spende molto del suo tempo a fantasticare, ora animando un personaggio ora un altro.



CONSIDERAZIONI DIAGNOSTICHE

Queste fantasie si possono vedere come recite interiori, a conferma di una impostazione isterica della personalità. Ma esse sono dissociate, nettamente divise tra loro, i vari personaggi non si incontrano mai. Talora presentano temi di aggressività sadica e distruttiva molto esplicita, anche fisica, senza arrivare a fantasie omicide. Una aggressività che Adriana agisce anche nella vita reale, distruggendo i rapporti con le amiche e con i colleghi insegnanti. Con Gianni è un inferno, lo attacca e lo blandisce, si aggrappa a lui perché è l’unica presenza che le sventa un crollo psichico temutissimo (Winnicott, 1971). Non ha alternative, data un’angoscia di separazione così intensa da non consentirle di vivere da sola. Benché a me non sembri tanto compromessa la “funzione riflessiva” (Fonagy & Target, 2001), viene emergendo il quadro di un caso limite, infiltrato da tratti isterici caratterizzanti. Green (1997) propone un “chiasma”, in cui isteria e caso limite si offrano reciprocamente come punto di vista da cui considerarsi l’un l’altro.



CENNI SUL LAVORO ANALITICO

Per quanto possibile, tutte le fantasie di vita dissociate vengono portate “nel” qui e ora e confrontate le une con le altre. La grande giornalista, la grande scrittrice, la cortigiana che seduce il signore, la volontaria in Africa che sviluppa una grande organizzazione, ecc., non sono figure così diverse tra loro: hanno in comune l’autoaffermazione narcisistica e il correlato plauso dei personaggi minori circostanti, e anche il loro affetto. Su queste fantasie il lavoro di cucitura procede bene, anche se si deve continuamente ripetere. Esse non tengono invece il confronto con quelle aggressive, che in seduta si gonfiano perché si valgono dell’attitudine all’odio di Adriana e perché veicolano elementi di transfert. In questi casi, dopo aver riferito una fantasia di litigio con la tale o la talaltra, con male parole, percosse, sputi e graffi al volto, attacca me e mi accusa di rovinarle la vita, tanto a me non importa nulla di lei, cosa ci rimetto io in questo rapporto?, è lei che paga, come sempre, come con tutti. La seduta può finire così, con tali espressioni, oppure con un plumbeo silenzio, oppure interrompersi perché lei se ne va prima, indispettita e arrabbiata, con me arrabbiato o scoraggiato e in angoscia. Qualche volta nel pieno di una scenata scoppia a piangere e mi supplica di non mandarla via, di continuare a tenerla come paziente. Come fa con Gianni. Quando teme che io la rifiuti, emerge la sua angoscia di abbandono, la cui intensità può impedire il lavoro analitico. Se invece lo consente, si cerca di individuare i nessi tra odio, aggressività e angoscia, non i nessi teorici, ma quelli esperienziali emersi “nel” qui e ora. Navigando tra rifiuto, rabbia, angoscia si sfiorano correnti ancor più cupe, quelle terrifiche. Ricorre l’esclamazione sbigottita “ah!, già”, siamo sul fondale nero di magia e stregoneria. Poche parole, sgomento e brivido, da parte di entrambi. Eppure il rammendo deve afferrare i lembi orridi e unirli a quelli ostili e a quelli angosciati e a quelli lieti che anche ci sono. Deve inoltre unire i contrari, portando il conflitto dove c’è la dissociazione (Bromberg, 1996).



NOTIZIA CONCLUSIVA

Va avanti così per oltre otto anni, finché decidiamo di congedarci. Molte cose sono accadute. Lei e Gianni si sono lasciati, il Prozac aiutando. La madre l’ha sostenuta economicamente e anche le ha trovato un buon lavoro, che Adriana sembra riuscire a svolgere senza eccessive tensioni coi colleghi. Vive da sola, è iscritta ad un circolo culturale femminile, tenta di costruire amicizie. E’ ancora facile al rancore, ma sta molto attenta a non indugiarvi. Le resta irrisolto ma depotenziato il tema magico, attualmente motivo di più rari turbamenti e spaventi. Ha cominciato ad affrontarlo in termini culturali, leggendo sull’argomento e anche partecipando a convegni. Dopo alcune altre vicende amorose con uomini più giovani di lei, da due anni ha una relazione con un coetaneo separato. Ancora scenate, ma meno plateali e violente, con periodi protratti di armonia.



BIBLIOGRAFIA


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